mercoledì 30 luglio 2008




Rientro nei ranghi

Ci portammo dietro il sudore, la polvere e ogni bendidio da Kaboul! Erano passati 10 giorni e nemmeno un’opportunità di una doccia, un bagno! Le motivazioni erano contingenti ma tant’è…! La zia di Max ci accolse calorosamente e ci offrì un abbondante pasto ma prima chiedemmo un bagno; io superai brillantemente la prova; Max, vuoi perché successivo, vuoi perché più ricco di bendidio, intasò la vasca! Ci informarono delle pene dei nostri genitori che alleviammo con una tanto sospirata telefonata. Un treno ci riportò a Catania: il viaggio era finito e cominciava il tran tran!
Duro , ma non troppo, fu il rientro nei ranghi, quasi osannati come eroi dai nostri amici e conoscenti: “hei, guarda quelli lì, sono stati in Afghanistan!”
Il fascino dell’oriente , del viaggio, inteso come viaggio della mente, ci aveva condotto lungo la rotta hippy, vivendo esperienze di vita cruda senza raggiungere i luoghi del misticismo e della meditazione e senza perdere di vista la vita reale.
A proposito, c’eravamo scordati del nostro amico Giovanni!
L’anno successivo, passando da Roma, mi ricordai dell’invito e mi sembrava bello incontrare il mio amico; tirai fuori il numero di telefono e chiamai. Mi rispose, un po’ meravigliata la madre che, evidentemente emozionata, chiamò la sorella; mi disse che Giovanni non era in casa; non mentiva; ma subito dopo mi chiese chi fossi , dove e quando avevo incontrato Giovanni; Non era ancora tornato e chissà se poi l’ha fatto in seguito! La confortai dicendo che stava in buona salute, ma era passato più di un anno, salutai e riattaccai! Vivemmo i tragici fatti del ’77, anche se marginalmente, e devo ringraziare mio padre che mi vietò per la prima volta, a ragione, di partecipare alla manifestazione di Roma in cui venne uccisa Giorgiana Masi.
Completai gli studi laureandomi in Medicina a pieni voti presso l’Università di Catania nel 1980; Max in Ingegneria credo anche a pieni voti (ho già detto che era un genietto!)
Io emigrai in Piemonte e lui prima in Liguria, un breve periodo in England e poi Milano.
Vuoi la conoscenza di luoghi del mondo diversi dal nostro, vuoi la mia formazione cattolica e la voglia di un impegno politico diverso dal solito, mi portarono a esplorare e condividere impegni di cooperazione internazionale in campo sanitario, in Asia, Africa e SudAmerica da un punto di vista prettamente laico.
Nel corso degli anni ho avuto modo di completare i luoghi dell’hippy trail, raggiungendo Katmandu, stavolta in aereo e con ben altre finalità!
Qualche anno dopo, nel 1979, proseguimmo la condivisione del viaggio, stavolta esitato in un lavoro in Germania; esitato perché non programmato.
Eravamo andati a trovare il nostro amico Salvo che, dopo gli studi liceali era partito, emigrato, in Germania e lavorava in una delle tre birrerie di Stuttgart, la Hofbrau; le altre erano la Swabenbrau e la Dinkelaker… ma questa è un’altra storia!


Ringrazio chi è giunto alla fine di questo blog anomalo, chi ha condiviso questi ricordi, di scarsa importanza se vuoi, ma intimamente miei!

lunedì 21 luglio 2008

Ritorno in Grecia



Partimmo per Atene con un biglietto BIGE il 22/9/1976; Il treno si fermava in ogni stazione, anche senza un apparente abitato. Al confine con la Grecia, dopo un’attesa che si protraeva oltre il lecito, ci accorgemmo che il nostro vagone, e solo il nostro, era su un binario morto! Si era un po’ incazzati quando giunse la notizia che il nostro treno era arrivato in ritardo e che, previa integrazione del prezzo del biglietto, avremmo proseguito con un altro superveloce. Seguirono proteste; qualcuno integrò, la maggioranza, noi compresi, no! L’addetto alla biglietteria, incazzato a sua volta, chiuse violentemente lo sportello mandandoci probabilmente a quel paese, ricambiato del resto! Nell’attesa cercammo di fare un giro nei paraggi, subito bloccati dai militari per la tensione che c’era tra Grecia e Turchia.
La stessa tensione che si creò con il bigliettaio greco che, sul treno,pretendeva l‘integrazione del biglietto. Escogitammo molti sistemi per eludere il pagamento; la prima scusa era che non avevamo i soldi: in effetti ne avevamo pochi e non volevamo restare a secco! Il controllore sembrava avesse creduto alle nostre affermazioni finchè ci trovò al vagone ristorante che sgranocchiavamo chissà cosa! Tornò alla carica e qui cominciammo a ciurlare nel manico facendo i finti tonti, dicendo di non capire e che parlavamo inglese! Andò via e credevamo di averla fatta franca; tornò con un tizio che parlava inglese e noi a dire che parlavamo francese! Andò via ancora una volta; Già s’intravvedeva Atene e cantavamo vittoria quando tornò con un poliziotto e ci ritirò i passaporti invitandoci a ritirarli in stazione dopo aver saldato il conto! Dopo una breve consultazione in cui valutammo i pro e i contro, capitolammo e ritirammo i passaporti!
Ad Atene ci imbarcammo su un taxi collettivo, un Mercedes, che ci assicurò l’arrivo a Patrasso per le 19; almeno così pensavamo noi! In realtà procedeva con un andatura turistica, 60-70 km/h fino a Corinto, erano le 17 e mancavano circa 140 km! Non saremmo arrivati in tempo! Chiesi ulteriormente come pensava di arrivare in tempo; stavolta capì che noi si intendeva le 7 di questa sera mentre lui intendeva le 7 dell’indomani! Improvvisamente affondò il piede sull’acceleratore e l'auto decollò. Arrivammo al porto in orario e, dopo una corsa di circa 400 metri, con i nostri pesanti zaini, raggiungemmo la nave, mostrando i biglietti; con nostro grande disappunto ci rinviarono alla partenza perché avremmo dovuto far apporre un timbro in biglietteria. Altri 400 metri indietro, timbro e poi altri 400 metri e la grande bocca del traghetto si chiuse dietro le nostre spalle! Ce l’avevamo fatta ancora una volta! Era il 24/9/1976.

giovedì 10 luglio 2008

Ritorno in Turchia: Istanbul (17/9/1976)



Improvviso un lampo illuminò il cielo accanto a Santa Sofia, seguito da un fragoroso tuono che interruppe i nostri discorsi; la pioggia sbatteva sui vetri sospinta dal vento. Mi accostai alla finestra per dare uno sguardo alla strada: “ minchia, sotto un albero siamo!”- dissi , non celando nei termini e nella costruzione le mie origini sicule, suscitando ilarità in Max e nei due grossetani. In effetti, sotto in strada, un grosso albero stava all’ingresso dell’Hotel e raggiungeva con le sue fronde i vetri della nostra finestra. L’acqua riempiva già la strada e scorreva da Sultanhamet verso la stazione ferroviaria provocando un fuggi fuggi generale dei numerosi venditori ambulanti coi loro carrettini pieni di gustosi cibi da strada. L’hotel era lercio; di notte degli animaletti rigonfi di sangue risalivano le pareti sopra il mio letto, mentre la mia pelle, e solo la mia, era ricoperta di lesioni papulose intensamente pruriginose. Anche noi del resto, non eravamo più lindi dell’hotel; il nostro ultimo bagno risaliva a Kaboul, 5000 Km fa come spazio e 7 giorni fa come tempo; il padrone ci promise l’acqua calda pregandoci di aspettare l’avvio della caldaia. Aspettammo 3 giorni senza risultato ed il treno per Atene era già in partenza rimandando il sospirato bagno a tempi e luoghi più comodi.
I giorni passarono senza sforzo con la velocità di tutti i giorni in ogni posto della terra. L’atteggiamento era più spavaldo rispetto a 2 mesi fa; avevamo 15000 Km nelle gambe, esperienze non sempre idilliache e qualche volta avevamo dovuto toglierci d’impiccio fidandoci delle nostre deboli forze e del nostro naturale istinto. Trattai con tranquillità e spavalderia delle banconote al mercato nero, chiedendo più di quello che il mercato nero potesse offrire. Scambiai il mio sacco a pelo di piume, a mummia, hand made, con quello sintetico della ragazza grossetana, certamente di minor valore commerciale ma senz’altro più leggero. La copertina di una rivista ci informava che il padre della rivoluzione cinese, Mao; era morto già da circa 10 gg. e un Boeing 727 si schiantava contro una montagna della Turchia facendo 155 vittime delle quali 85 italiani; ma noi non lo sapevamo e nemmeno mio padre sapeva che noi non eravamo tra quelli; Si metterà il cuore in pace 10 gg dopo, al nostro rientro, ignari di tante cose!
Tornai in quel lercio hotel venti anni dopo con mia moglie; non era più lo stesso essendo stato completamente ristrutturato; non più enormi stanzoni con pareti grigio marrone e fioca luce, locale per bagno con enorme stufa scalda acqua, ma stanze di fresca bianca pittura con bagno , sempre sotto il grande albero di venti anni prima.
Fui contento di ritrovarlo così cambiato; il proprietario ci accolse gentilmente trovandoci un parcheggio in una strada adiacente vicino ad un altro piccolo albergo gestito dal fratello. Furono tre giorni da favola con una grande voglia di scoperta da parte di Donatella, vera trascinatrice all’estero quanto conservatrice e abitudinaria in patria.

venerdì 4 luglio 2008

Kaboul-Istanbul non stop 3^



Il viaggio scorreva lento ma continuo tra le strade polverose con soste per i pasti, le angurie dolcissime e dissetanti, i bisogni fisiologici, il fumo, il riposo notturno attorcigliati tra i sedili; non sopportavo molto questa posizione per cui, appena si faceva sera, in 5-6 persone ci sistemavamo sdraiati nel corridoio del bus, riuscendo a dormire profondamente; Durante la notte, io non mi accorsi di nulla perché dormivo profondamente, Max ed altri entrarono in una moschea dove un guardiano, con un robusto bastone, vigilava affinché gli infedeli non profanassero la sacralità del luogo; Max riuscì ad eludere la sorveglianza non destando, per l’aspetto che aveva acquisito, alcun dubbio sulla sua origine; Una bionda viaggiatrice pomiciò tutta la notte con il giovane bigliettaio turco, litigando irrimediabilmente con il suo compagno; Un’altra coppia venne abbandonata durante una sosta e ripresa alla fermata successiva, dopo qualche centinaio di chilometri d’inseguimento con una macchina di fortuna.
Alla fermata di Teheran, l’aria che si respirava con la gente non era tranquilla, per cui, dopo breve consultazione , ci trovammo d’accordo di proseguire la seconda parte del viaggio fino a Istanbul; pagammo i 25 dollari necessari per la tratta e proseguimmo la nostra folle corsa.
In prossimità di Istanbul l’intestino ricominciò a reclamare una non rinviabile evacuazione. Era sera e, dopo una rapida contrattazione con l’autista, il bus accostò in un posto che a me sembrava un parco; cercai un riparo dietro un cespuglio ben rasato e svuotai il contenuto retto-colico senza ritegno; con mia grande sorpresa, tutti i viaggiatori scesero dal pulmann, poi anche i loro bagagli…: era Sultanhamet, stazione di arrivo, di fronte al Pudding shop! Dopo un iniziale, ma neanche tanto, disagio, zaino in spalla, ci avviammo al nostro hotel.

Kaboul-Istanbul non stop 2^



Alla frontiera dalla parte afgana numerose scritte artigianali con fumetti invitavano ad abbandonare tutto l’hascish avanzato, ventilando il rischio di buia galera dall’altra parte; L’appello rimase inascoltato, specie per due compagni di viaggio grossetani che non volevano rinunciare alle loro scorte!
L’attraversamento del confine con l’Iran fu un incubo! era il 15 settembre ’76. La sosta durò diverse ore; ci fecero scendere dal bus e lo ispezionarono per bene, bucando i sedili , smontando parti meccaniche e quant’altro; i viaggiatori furono incanalati in lunghe file con i rispettivi bagagli, rigorosamente divisi per sesso; attraversammo il museo della frontiera, dove erano in bella mostra tutti i trucchi messi in atto dagli spacciatori per fregare i controlli; ovviamente erano stati scoperti e la mostra era un tentativo di dissuasione per i viandanti.
La lunga fila stazionava davanti ad un poliziotto che, a volte, ispezionava i bagagli, non prima di aver apprezzato la frequenza cardiaca; una tachicardia era espressione di paura e quindi suscettibile di controllo; il nostro amico di Grosseto e gentile compagna era dietro di me ed io, sapendo del pezzo di hashish occultato rispettivamente nel retto e in vagina, tremavo per loro; fu la loro salvezza! Il funzionario colse in me una paura fottuta e mi mise da parte per una ispezione accurata, ovviamente infruttuosa: non avrei mai rischiato la galera per prolungare un piacere effimero. La ragazza, serena come una pasqua, trasbordò il suo pezzo nascosto in vagina senza subire ispezioni corporali previste da funzionarie donne.
Ripartimmo dopo molte ore e senza che i doganieri avessero trovato nulla con sospiro di sollievo mio e di tutta la compagnia.
Utilizzammo il fumo per tutto il restante viaggio con un gusto particolare che derivava dalla sua sempre progressiva rarità e illegalità.

Il ritorno: Kaboul-Istanbul nonstop 1^



Rientrammo a Kaboul il 10 settembre ’76, ricalcando, a ritroso, gli stessi passi dell’andata: Lahore, Rawalpindi, Peshawar, Kyber pass, Kaboul. Mao era morto il giorno prima ma noi ne avemmo notizia solo a Istanbul, oltre una settimana!
Kaboul ci sembrava molto familiare. Cambiammo ancora i pochi travellers rimasti in una Bank of Afghanistan che rivaleggiava in eleganza con gli uffici dell’Iran-Afghanistan border: un’altra stalla, con l’ufficio cambi nel pagliaio, raggiungibile con una ripida scala in legno! Tra una cosa e l’altra erano già passati due mesi ed era giunta l’ora di tornare, almeno per me! Max non ne aveva tanta voglia. Trovammo due posti su un comodo bus GT che sarebbe partito tra due giorni da Kaboul con destinazione Istanbul con fermata intermedia a Teheran. Optammo per la tappa intermedia sia per dividere i 5000 km del viaggio sia per vedere con più calma Teheran.
Il giorno della partenza ci presentammo alla stazione dei bus, dopo aver disdetto l’hotel e saldato i ridicoli conti con gli zaini ricolmi, una borsa di pelle nuova, morbida la mia e più rigida quella di max con un profumo o tanfo, fate voi, che mi ricorderà per sempre Kaboul! La sorpresa ci fu comunicata allo sportello: la partenza era rimandata di due giorni. Il rinvio mi disturbava un po’ essendo già nella dimensione del ritorno; non così per Max che ritornò volentieri in hotel a riprendere ancora per qualche giorno le comode abitudini della vita di Kaboul del 1976.
Ne approfittammo per fare le ultime compere, i souvenir… Acquistai due gonne a portafoglio in cotone russo; ne indossai una per tutto il resto dei giorni che passammo a Kaboul e una era per Irina che la terrà per decenni (ce l’hai ancora?) indossata sempre con piacere. Se non ricordo male Max acquistò uno sgabello, sì uno sgabello di rami intrecciati, un narghilè e non so cos’altro: tutto nello zaino!
Il giorno della partenza arrivò comunque con la velocità tipica di quando fai delle cose piacevoli: subito! In realtà il tempo non prende ordini da nessuno e tira dritto per la sua inesorabile strada: solo la nostra percezione sposta, di poco, la realtà.
Il bus era di quelli comodi. Ci assegnarono un posto nell’ultima fila, quello di solito disputato dagli studenti in gita; Max non apprezzò la sistemazione prevedendo l’impossibilità di abbassare lo schienale per il riposo notturno; prese lo zaino e scese dal bus proponendo di prendere il successivo! Il successivo!? Chissà quando sarebbe partito! Le mie insistenze e soprattutto l’assegnazione di un posto più comodo convinse Max a risalire e ad intraprendere il viaggio di ritorno che suonava male alle sue orecchie.

giovedì 3 luglio 2008

Lahore 2^ parte


Era un grande albergo a più piani con le camere che davano su un corridoio che si apriva su un cortile. Il colore dominante era grigio-oliva.
Con un sospiro di sollievo posai il mio zaino sul letto e cominciai a tirar fuori il contenuto; la macchina fotografica, Exacta RTL 1000, era lì al suo posto; la sollevai e, sorpresa, il peso si era ridotto praticamente a quello del solo contenitore: praticamente me l’avevano fottuta! Porca miseria! o giù di lì!
Le prospettive che si paravano davanti erano tre: far finta di nulla e proseguire il nostro giro, denunciare il furto e comunque proseguire il nostro giro, tornare sul luogo del furto e cercare di recuperare il maltolto! Dopo rapida consultazione optammo per la soluzione più incasinante e più pericolosa: tornare al lercio hotel a rivendicare la macchina fotografica avendo individuato nell’assenza della mattinata l’unico momento in cui il furto si sarebbe potuto compiere.
Ci armammo di coraggio e tornammo sui nostri passi. Grande fu la sorpresa del tipo nel vederci arrivare e, dissimulando la sorpresa, ci accolse con un largo ma sforzato sorriso chiedendoci il motivo della visita. Esponemmo le nostre lamentele; ci fu risposto indicandoci un cartello in cui si diceva che la direzione non rispondeva di eventuali furti nelle camere. Dopo un batti e ribatti in cui il mio povero inglese si mischiava sempre più con il mio ricco siciliano, il tipo cominciò ad incazzarsi e ad essere sempre più minaccioso; Per contro veniva fuori un mio sconosciuto spirito battagliero che mi portava a minacciare di andare via da quel posto e denunciare l’accaduto alla polizia. L’ingresso credo occasionale di un poliziotto, peraltro sbronzo, o comunque fatto, giocò un ruolo fondamentale a mio parere nel far cambiare la partita; ad un iniziale rifiuto totale si giunse alla ventilata ipotesi di ricompensa per il ladro; Questo mi diede la conferma che c’era una associazione a delinquere e temerariamente alzai la posta minacciando di andare via; era mia intenzione di andare via davvero, definitivamente senza nulla pretendere e ci avviammo verso le scale; “OK, OK, disse il tipo, adesso vedo se riesco a recuperare la fotocamera, aspettate qua!” Temendo soluzioni violente al riparo di occhi indiscreti, optammo per attendere in strada la soluzione della vertenza. Il sole cominciava a calare e la penombra si insinuava nel quartiere che non aveva una illuminazione pubblica; questa situazione ci faceva prevedere ancora soluzioni violente, complice il buio. Dopo un pò decidemmo di andare, subito bloccati dalla voce del tipo che riferiva come imminente l’arrivo della macchina fotografica; Il buio era quasi prossimo e minacciando ulteriormente di andare via, ci avviammo verso il centro. Il tipo giunse con in mano la camera e ce la consegnò con molte scuse indicando in un cameriere il ladro. Per completare il successo e il comportamento da mafioso chiesi, con fare minaccioso, se fosse stata aperta. All’assicurazione che la macchina non era sta aperta, stringemmo la mano al tipo e tornammo rapidamente alle nostre occupazioni. Il petto si riempiva d’orgoglio e probabilmente al buon esito dell’operazione aveva contribuito il nostro essere siciliani e l’alone di mafia che circonda questo termine.

Lahore I^ parte


E perché non Lahore! Lahore al confine con l’India. La solita polverosa stazione dei bus ci fece trovare un tipo che, con insistenza, ci proponeva una delizia di comodità alberghiere nell’hotel da lui sponsorizzato. Dopo un minimo di resistenza e in mancanza di alternative ci dicemmo: “Why not”? E seguimmo la nostra guida improvvisata che ci portò all’hotel situato nella periferia della città.
Le due rampe di scale ci portarono alla hall dove un giovane muscoloso pakistano con fare accattivante ci guidò in una delle poche camere che si aprivano direttamente nella hall, mostrando con orgoglio un grosso ventilatore posto sul soffitto che avrebbe dovuto alleviare l’afa opprimente che ci perseguitava dall’ingresso nel Paese. Il risultato dell’azione del ventilatore era sì quello di muovere l’aria ma, allo stesso tempo, sollevava l’odore di lercio delle lenzuola. Il tipo si prodigava a renderci il soggiorno piacevole offrendoci da fumare e proponendoci dei massaggi rilassanti. Rifiutammo gentilmente programmando per l’indomani una fuga da quel posto facendo trapelare l’intenzione di tornare a Kaboul; in realtà la nostra intenzione era quella di cambiare sistemazione in un posto meno equivoco e più pulito. La cosa non fu di facile attuazione perché le nostre finanze erano basate su un unico ingombrante centone di dollari americani che non volevamo cambiare prima in rupie pachistane per poi ricambiare in afgani e poi in rials iraniani e poi in lire turche e in dracme greche e infine lire italiane! Ci venne la brillante idea di chiedere aiuto al consolato italiano, chiedendo un semplice cambio in tagli più piccoli. Dopo lunga attesa ottenemmo un netto rifiuto e così sconsolati (appunto!) tornammo nel lercio hotel a tentare una mediazione per saldare il conto e avere il resto in dollari. Il tipo muscoloso ci fece pagare il corrispettivo di 20 dollari e con nostra felicità ci rifilò 80 profumati dollari in banconote da 20. Dopo i convenevoli, eravamo diventati degli amiconi; ci salutammo con la promessa di rivederci un giorno e con l’augurio di un buon viaggio per Kaboul; e sì Kaboul; avevamo detto Kaboul. Il tipo in un eccesso di cortesia insistette per farci accompagnare alla stazione dei bus per Kaboul da un ragazzo. Le nostre intenzioni erano quelle di restare in città per cui con uno stratagemma lasciammo credere che avremmo acquistato dei viveri per il viaggio ed avremmo preso il nostro bus. Quando fummo certi che il ragazzo si era allontanato, andammo diritti verso il nuovo albergo che avevamo adocchiato in mattinata.

Peshawar



Giungemmo finalmente a Peshawar, città di confine, abitata prevalentemente da gente di etnia pasthun. Alloggiammo in un hotel, ovviamente economico, buio. Stanchi del viaggio, chiedemmo del the e qualcosa da mangiare; Ci portarono delle brioches e del the al latte; m’incazzai come non mi succede praticamente mai, inveendo contro il cameriere: “Avevo chiesto del the, non del the al latte!” e lui , timidamente” assaggia, assaggia”. Effettivamente era buonissimo ! chiesi scusa per la mia cafonaggine giustificata dalla stanchezza e ci buttammo sul cibo. La latrina era alla turca con un salutare rubinetto basso che ci aiutava nelle abluzioni post-bisogni corporali; bisogni corporali! La usai frequentemente in quei giorni con numerose scariche dissenteriche (cioè con sangue!). ero demoralizzato: mi vedevo a 8000 km da casa e non potevo certo fare ritorno in un battibaleno; ci venne l’idea di cercare un volo per il ritorno; ci buttammo in città alla ricerca di una agenzia di viaggi; fra l’altro era piacevole entrare nei locali condizionati per un attimo di ristoro dal caldo umido asfissiante di Peshawar; ne visitammo due o tre ma il prezzo era ben lontano da quello che avevamo visto, prima di partire in una pubblicità della Pakistan airline: con i soldi rimasti in due non si riusciva a fare neanche un biglietto!
Decidemmo di girovagare per la città. Alla sera con una carrozzella con ripostiglio segreto sul tetto ripieno di ogni bendidio (si fa per dire!) andammo in un locale (rainbow?) dove mangiammo bene e incontrammo tipi di ogni specie. Un frutto mi colpì in particolare: grosso come una grossa mela, di cui riproduceva la forma, buccia liscia, gialla, polpa come una pera, granulosa, sapore di …fragola! Amruth era il suo nome; ho portato con me i semi che ho messo inutilente nel mio giardino!
La vicinanza di Darra, città del commercio clandestino di ogni tipo di arma, droghe varie, con consegna a domicilio in ogni angolo del mondo, si faceva sentire. Sarebbe stato interessante farci una capatina ma non sapevamo da dove iniziare e poi anche un po’ di timore ha fatto il resto!
Il cocchiere ci aspettò tutta la sera e lo ritrovammo all’uscita: evidentemente eravamo degli ottimi clienti!

martedì 1 luglio 2008

Il passo Kyber 4/9/1976



Tornammo a Kaboul allo stesso hotel. La voglia di andare verso oriente ci spinse all’ambasciata indiana per ottenere il visto d’ingresso; Ci svegliammo di buon mattino e, con pazienza, ci mettemmo in coda. La fila era lunghissima; dopo poco rinunciammo al passaggio in India optando per una permanenza in Afghanistan, con una puntatina in Pakistan.
La sonda Viking atterrava su Marte il 3 sttembre del '76 e noi ne eravamo all’oscuro!
La ricerca di un mezzo di trasporto per il Pakistan ci portò alla scelta dettata dal risparmio; scegliemmo un bus locale (sedili senza imbottitura, rigidi, con trasporto promiscuo di uomini, animali e cose) che, per una cifra circa la metà di altre compagnie, ci prometteva di portarci a Peshawar in tempi ragionevoli. La strada scorreva lentamente con compagni di viaggio, afgani e pakistani, segnati dalla fatica avvolti nelle loro ampie ma funzionali vesti . I posti di blocco erano sempre più frequenti e i doganieri si accanivano particolarmente con i locali che spesso venivano fatti scendere dal bus a bastonate, con le loro povere merci, in modo definitivo e verosimile sequestro del misero sacchetto di granaglie (credo fossero tali, a giudicare dalla forma che prendeva il sacco!)
Infine giunse il confine e con nostra grande, prima sorpresa e poi stizza, scoprimmo che il bus era giunto al capolinea ed il biglietto pagato si riferiva a quella tratta percorsa e che per giungere a Peshawar era necessario attenderne un altro e pagare il relativo biglietto in rupie pachistane: Il necessario cambio era 85,07 lire per una rupia. Tirammo fuori dai nostri rifugi segreti i dollari poco più che necessari alla bisogna e li cambiammo in rupie. Per fortuna il bus non si fece attendere a lungo e regolando il prezzo del biglietto puntammo verso il Pakistan.
Il passo Kyber fu uno sballo, una meraviglia continua mista a paura; i fortini abbandonati si presentavano lungo la strada memori di antiche battaglie; famosi condottieri quali Alessandro Magno, Tamerlano erano passati di là e gli inglesi, tentarono inutilmente di occupare il territorio afgano attraverso il Kyber. Il bus correva rigidamente sul bordo sinistro della strada dandoci costantemente l’impressione di precipitare lunghi i profondi dirupi. Ogni tanto, tribali camminavano lungo i bordi della strada e il divieto di fotografare le donne si presentava frequentemente.
La pianura e il verde del Pakistan si mostrarono al nostro sguardo in maniera abbagliante per l’intensità dei colori, l’abbondanza d’acqua, le pozze ripiene di bufali e la morfologia degli abitanti; notai la presenza di numerosi longilinei con la testa relativamente piccola, poliomielitici su carrettini artigianali che rotolavano su cuscinetti a sfera come quelli che vedevo da bambino in quel di Randazzo, costruiti dai ragazzi più intraprendenti che, comunque, che io sappia, non sono poi diventati ingegneri automobilistici! Alla prima stazione di sosta del bus ebbi una piacevole sorpresa: alla Sprite, bevanda onnipresente, si aggiunse un piacevolissimo succo di mango di produzione nazionale che divenne la mia bibita ufficiale e mi accompagnò per tutto il viaggio in Pakistan.

martedì 24 giugno 2008

L’estensione a Bandyamir



Il viaggio fino a Bandyamir durò circa 7 ore, stavolta con un minibus, certamente più comodo del truck. Giungemmo in un posto da favola tra le remote e selvagge montagne dell’Hindu Kush in una valle che racchiudeva cinque laghetti ( ma forse erano di più); erano di un blu elettrico mai visto, imitante i lapislazzuli, che, dagli alti margini di roccia, straripavano in cascatelle; prima di disperdersi nel fondo valle, azionavano le pale di numerosi mulini ad acqua e, in un paesaggio brullo tipo Gran Canyon, formavano dei miraggi; mi sono chiesto e mi chiedo tutt’ora da dove giungessero i cereali, visto che tutt’attorno era un paesaggio arido per chilometri e chilometri!
Il villaggio, che sembrava solo esclusivamente turistico, era formato da una doppia fila di poco invitanti hotel dai nomi altosonanti, ripetitivi e rievocativi; andammo tanto per cambiare al Marco Polo Hotel, una baracca di fango con dei pavimenti dello stesso materiale, sacchi di plastica alle finestre, giacigli di corde intrecciate, lavabo nel dehor e latrina all’aperto con una parvenza di riparo da occhi indiscreti, visitata solo una volta e poi abbondonata per la presenza massiccia di terribili mosconi blu. Erano certamente gli stessi che ricoprivano totalmente i mucchi di uva passa del negozietto all’inizio del villaggio e che venivano allontanati dal movimento della mano del venditore poco prima di affondarla nel mucchio dello squisito frutto!
Oltre ai camerieri afgani c’era anche un italiano che per vitto e alloggio serviva ai tavoli in attesa di un improbabile arrivo di fondi da casa! Come avrebbero fatto ad arrivare fin là me lo chiedo ancora adesso!
Una notte, dopo aver impastato al lume di candela del polline di Cannabis varietà indica, che un compagno di viaggio aveva acquistato a Kaboul, formando dei piccoli panetti per uso familiare e usando come unguento la saliva, bussarono alla porta chiamando: “Doctor, doctor”. Fui meravigliato per questo titolo che certamente era esagerato avendo superato soltanto gli esami del 2° anno di Medicina e che comunque non era a conoscenza di altri se non di Max; “Sei tu il dottore” disse Max “io, tutt’al più, sarei ingegnere!” Chiesi cosa volesse ed in francese mi disse che nell’hotel di fronte c’era un cuoco che stava male e, secondo lui, che era un veterinario, era rimasto paralizzato. Ero abbastanza preoccupato per la situazione che si stava creando, sia per il buio della notte sia per le mie capacità diagnostico-terapeutiche. Mi avviai col quasi collega veterinario, portandomi dietro la mia borsetta da viaggio dei medicinali che, probabilmente, era stata la causa dell’equivoco. Attraversai il piazzale in un silenzio surreale e con una stellata resa più intensa dalla luna nuova; entrai nel locale adibito a cucina dove, in un ambiente illuminato dalla fioca luce di una candela , stava disteso il malcapitato; disteso come una mummia egiziana, era stato avvolto con delle lunghissime bende lasciando scoperti ambedue i piedi. Raccolsi diligentemente l’anamnesi, per quel che potevo, e, dato che ero ai piedi del paziente, mi balenò alla mente di sfiorare una alla volta le piante, suscitando una pronta retrazione degli arti del malato. “Non è paralizzato “ sentenziai “Probabilmente si tratta di una sindrome da raffreddamento “ aggiunsi con fare da professorone e ordinai di sfasciare la mummia; questo lavoro durò almeno quindici minuti, tante erano le bende! Tirai fuori dal mio armamentario terapeutico, due compresse di aspirina; ne prescrissi una subito e una dopo sei ore ordinando: “dopo i pasti!”. Tutti si affannarono a portare al malato del cibo.
Tornai in Hotel con il timore di una errata diagnosi e soprattutto con il timore di una intolleranza all’aspirina. Passai una notte agitata. Era stato il mio primo intervento medico senza il titolo e soprattutto la capacità per esercitare!
L’indomani mentre lavavo il viso nel lavabo del dehor, intravidi un tipo che dall’hotel di fronte mi salutava calorosamente. “E’ il malato di stanotte “ disse Max “e, a quanto pare, sta benissimo: complimenti!” Mi sentii sollevato e come premio pensavamo di aver rimediato un pranzo per mezzogiorno, graditi ospiti del padrone e del cuoco. Alla fine del pranzo il padrone ci portò il conto e come ringraziamento per la visita e guarigione del suo cuoco, due tazze di yogurt di cui avremmo fatto volentieri a meno.
La voce del medico guaritore fece rapidamente il giro del villaggio e in mattinata un discreto numero di persone aspettavano di essere visitate dallo stregone bianco che aveva guarito il cuoco. Un ragazzetto mi mostrò una ferita infetta ad una mano che ripulii con quello che avevo nella mia cassettina; un vecchietto si mise tossire per mostrarmi i sintomi della sua malattia; dispensai anche a lui qualcosa, forse dei teofillinici. Mentre io mi gingillavo a fare il dottore, in quei giorni veniva segnalato in Zaire la prima epidemia da virus Ebola: presagio di un prossimo futuro!
Non vedevo l’ora di partire temendo sia le reazioni avverse sia gli effetti del famoso yogurt.
Non mi sbagliavo; dopo meno di 24 ore dal pasto, in viaggio per Kabul, vomitavamo a più non posso e la diarrea non ci mollava, costringendoci a chiedere ripetutamente all’autista degli stop fuori programma; quando la strada passò accanto ad un fresco torrentello ricambiò le nostre richieste con il perentorio ordine di pulizia del suo mezzo insozzato dal vomito di Max. Ripassammo da Bamiyan dando un rapido sguardo alle statue di Budda consapevoli che non li avremmo più riviste perché poste in un posto remoto, inconsapevoli dei tragici avvenimenti futuri, per l’arte certamente, ma anche per gli uomini.

venerdì 20 giugno 2008

Il viaggio a Bamiyan







Le giornate a Kaboul scorrevano pressochè tutte uguali: erano trascorsi ben tre giorni! un manifesto affisso in centro, nei pressi del nostro ristorante di riferimento annunciava un’escursione a Bamiyan . Non sapevamo quali bellezze o torture ci aspettavano e così con l’innato spirito d’avventura ed in mente la scoperta, partimmo. Eravamo una ventina sul cassone di un truck che puntava verso il nord, esposti alla polvere micidiale di una strada non asfaltata d’agosto in Afghanistan; dopo pochi chilometri di questo inferno un paio di viaggiatori italiani rinunciarono, imprecando, all’impresa scegliendo di tornare alle comodità della città. Giungemmo alle sei della sera alla periferia di Bamiyan, 2500 metri di altitudine, dopo circa 230 km misti a polvere e sudore; lungo il percorso greggi infiniti di quelle buffe ma senz’altro resistenti pecore afghane con la gobba dietro il culo, simile per forma e funzione alla gobba dei camelidi; . I pochi negozi erano chiusi; nella valle la notte era calma: era il 28/8/1976.
L’indomani facemmo visita al più grande degli enormi buddha risalenti al 2° e 5° secolo; ma queste datazioni storiche sono acquisizioni di oggi! A quel tempo erano solo enormi e inquietanti! Erano scavati nella roccia , il più piccolo di circa 38 metri; il più grande alto 55 metri, con percorsi interni che portavano alla testa della statue; il piccolo risalente alla dinastia Kushan ed il più grande rappresentante la statua più alta del mondo; ambedue collegabili all’arte del ghandaar,( dal nome dell'antica città che è stata identificata con la moderna Peshawar, in Pakistan) esempi di sincretismo artistico tra la Grecia e l’Oriente, il buddhismo e l’ellenismo. In realtà nei primi secoli d.C. Bamiyan era un centro religioso buddhista molto importante, con una dozzina di monasteri scavati nella roccia; la costruzione delle gigantesche statue superò tutte le orde degli invasori, essendo poste su una via della seta secondaria rispetto alla principale. Il paesaggio sembrava fermare il tempo confermato dai turbanti degli uomini ed i vestiti colorati delle donne non ancora obbligate al burqa ma racchiuse nelle loro vesti dignitose. Non riuscivo a fotografarle, come di solito mi succede, nel rispetto totale della persona umana che mi appare come violentata dall’obiettivo; forse dovrei cambiare atteggiamento e fissare nelle immagini sguardi che mai rivedrò, per l’opportunità contingente, o anche solo per documentare lo scorrere del tempo; chissà quante di quelle persone non ci sono più travolte dalla vita quotidiana e dalle storture delle guerre! ''...Qui la mente è potente, la neve alta e le temperature sono gelide anche d'estate, le vallate sono profonde e le cime pericolose'' scrisse tredici secoli fa il pellegrino cinese Hsiun Tsang descrivendo la valle di Bamiyan. Come tanti altri, anche lui aveva intrapreso un viaggio lungo e pericoloso per venire a visitare la valle dei Buddha giganti. Nessun monumento testimonia meglio dei Buddha di Bamiyan la straordinaria storia dell'Afghanistan pre-islamico che, come ha ricordato l' agenzia dell'Onu per la cultura, l' Unesco, era ''situato a un crocevia della via della seta e che ha un'eredità culturale unica, segnata dalle molteplici influenze della Grecia, della Persia, dell'induismo, del buddhismo e dell'Islam'' Al tramonto sembra di stare in un'altro posto, tanto radicale è il cambiamento della luce e dei colori. Le statue presentevano ogni tanto delle aperture da cui si intravvedevano i turisti che salivano le scale interne su fino alla testa; un biglietto d’ingresso, un misero biglietto d’ingresso, dal costo irrisorio, ma per noi esagerato, ci convinse a non visitare le statue dall’interno.
Con un editto del mullah Mohammed Omar, leader dei talebani, sono state distrutte assieme a tutte le statue e statuette pre-islamiche. L’iconoclastia ha prevalso ed a nulla sono valsi i tentativi di acquisto(!) da parte di americani, francesi , indiani e thainlandesi!. E noi, come tutti non potremo più salire dentro le viscere dei buddha. Adesso, si parla di ricostruirle! E, notizia freschissima, il nostro governo ha stanziato una somma per la costruzione di un ‘autostrada Kaboul-Bamiyan!
Passammo la giornata con due compagni di viaggio bergamaschi, credo, musicisti, uno suonava il sax alto e l’altro il flauto: cercavano sonorità orientali.
Nel poco tempo trascorso a Bamiyan visitammo i dintorni ; c'era un forte diroccato e un boschetto dove, come un diligente maestro, spiegavo delle immagini dell’occidente a dei bambini che, con discrezione e dignità, ci venivano dietro.
Passammo la notte in un localino tappezzato da tappeti dai colori fantastici, sbiaditi dall’età e dai ripetuti lavaggi nel fiume; nello stesso locale, un salone lungo 12 metri x 7 circa, si mangiava e dormiva a prezzi popolari ; il gestore ci invitava inutilmente a ballare una danza popolare. Mangiammo con appetito un pasto di riso e zuppa di vegetali sul tappeto, chi a gambe incrociate chi seduto su un fianco, chi sdraiato come un antico romano; solo i locali riuscivano a stare in quella strana ma certamente efficace posizione accovacciata! Alla fine la maggior parte dei viaggiatori si mise a dormire sullo stesso tappeto. Noi scegliemmo, per qualche afgano in più qualcosa di più appartato, adiacente al locale, arredato con tappeti altrettanto belli. Passammo una notte insonne fatta di pruriti e speranza dell’alba liberatrice. Le pulci avevano colpito ancora!
Conoscemmo Mohamed, un afghano ventenne, che lavorava come cameriere nel posto dove avevamo dormito e che , il giorno seguente, avrebbe viaggiato con noi fino a Bandyamir. Eravamo in pieno Ramadan. Al mattino facemmo una foto ricordo, una delle rare foto fatte e rarissime sopravvissute, in cui noi sembravamo afghani e lui un occidentale. Non era un fervente musulmano osservante: ci confidò infatti che andava a Bandyamir per infrangere, senza punizioni, l’indicazione al digiuno e all’astensione dal fumo.
Anziché tornare a Kaboul, ci imbarcammo in un ulteriore viaggio, destinazione Band-y-amir che veniva dipinta come una sorta di paradiso!

mercoledì 18 giugno 2008

L’ultima cena



Le sonorità create da David Bowie, Doors , Velvet Underground, Frank Zappa, Lou Reed, Jim Morrison, Pink Floyd riempivano l’aria della hall e si mescolava col fumo e il chiacchierio degli ospiti, mentre, a nostra insaputa, si delineava un nuovo stile denominato punk i cui profeti erano, Patti Smith, i Television in America e i Sex Pistols, i Clash e tanti altri in Europa, di cui ne ascoltiamo oggi volentieri ancora le note, magari da sopravvissuti dischi in vinile! Tale fenomeno si sostituiva al fenomeno degli hippy di cui noi pacifisti, idealisti, un po’ trascendenti, ne scimmiottavamo ancora le parvenze, in coda al fenomeno: non eravamo forse sull’hippy trail? Gente la più disparata ci accompagnava in questa ricerca, nella dimensione di un viaggio insieme fisico e mentale; anche anziani (ma forse erano della mia età attuale o anche più giovani) ; non vedevo compagni di viaggio russi, cechi, polacchi, ungheresi, rumeni, albanesi: il 1989 era ancora lontano e, inimmaginabili per me, e forse anche per altri, erano le accelerazioni storiche che si sarebbero verificate in quell’anno. Men che meno, se ciò fosse possibile, vedevo compagni di viaggio africani sull’hippy trail, impegnati, ancora nel secondo millennio, in ben altre rotte! Il gestore, nel tentativo di variare il menu tentava inutilmente di preparare una pizza: per noi andava bene “vegetables soup & rice” e centellinare chai , anche se Fanta e Sprite non mancavano mai, anche nei posti più sperduti e desertici.
Una delle pratiche più frequenti della giornata era rappresentata da un cilum di afgano nero che il gestore dell’hotel ci offriva, non richiesto, in stringhe morbide, per pochi afgani .
Un pomeriggio, cullati da una piacevole brezza, assaporavamo l’acre ed insieme dolce, profumo dell‘ haschisc. “Comprendo la particolarità del momento” dissi solennemente “ma, vedi Max, quando tutto sarà finito, quello ci sarà ancora, lì, lì sotto l’intonaco!” “Cosa dici?” disse Max ridendo a crepapelle. “Si, Cristo ed i dodici apostoli, l’ultima cena, vedi le areole?” Evidentemente non aveva le mie stesse visioni mistiche leonardesche,( o forse più modestamente carlentinesche!) mentre concordava con i mille volti ora tristi ora comici che la luce, aiutata dal vento, forgiava sulla logora tenda che copriva la grande finestra della nostra camera.
Non c’era nulla di tutto ciò: solo i nostri vent’anni, la nostra incoscienza e la convinzione che fumare potesse essere creativo e disinibente, nella logica di un misticismo imperante, di cui noi eravamo la rappresentazione vivente e viaggiante. Quanta gente instupidita dalle troppe canne, e non solo, lungo le strade d’oriente!

mercoledì 11 giugno 2008

Finalmente Kaboul


La città ci accolse con una carrozzella che ci condusse in Hotel; non ricordo il nome (Rainbow?). Passammo lì la prima notte in una mega camerata poco gradevole. Era il 24 agosto del ’76. Dal giorno seguente ci trasferimmo in uno più potabile, posto in una stradina laterale, nei pressi di chicken street. Accanto all’hotel vi era un forno per il pane dove, gli avventori, acquistavano un pane, tipo pizza, che veniva cotto in una grossa giara interrata, nel cui fondo c’era il fuoco; il pane o la pizza che sia, veniva attaccata, non so come, alla parete e tirato fuori, a cottura ultimata, con un gancio; qualcuno lo condiva con verdure varie e poi lo arrotolava.
La giornate scorrevano tranquille ed erano scandite dai ritmi dei pasti; colazione in albergo con the nero e “apple pie” acquistato nella vicina panetteria dove, tra gli scaffali, correvano piccoli e grandi scarafaggi; pranzo al ristorante dell’angolo con kebab in varie preparazioni, dove un grosso, nero, spelacchiato ratto girava lentamente indisturbato tra i tavoli e la cucina; appena fuori, alla porta accanto, vendevano dei pericolosissimi favolosi frullati di fragole o melone e ghiaccio tritato che spegnevano l’arsura pomeridiana; alle cinque the di menta ed alla sera, altro ristorante con musica, riso pilau, vegetali ed una enorme bistecca impanata. L'acqua era presa dalla fontanella e trattata con amuchina e gocce di lyme nella borraccia militare. Era proprio tranquilla Kabul nel 1976; i commercianti del centro contavano mazzette di dollari, l’artigianato era fiorente con produzione di oggetti di rame e simili, lavorati con incisioni floreali di cui conservo ancora un esemplare: un boccale usato solo a scopo decorativo per via dell’ossido che vi si è depositato; il turismo di cui noi eravamo i rappresentanti poveri marciava a gonfie vele. Le attrazioni, le comodità catturavano molti viaggiatori che, a volte storditi dai fumi della Cannabis, scordavano l’obiettivo del viaggio o forse era quello l’obiettivo del viaggio: fumo a basso costo, con disponibilità infinita e senza o quasi i rischi di casa nostra, anche se non era più legale dal 1974 e nella hall dell’hotel campeggiava un cartello che avvertiva dei rischi, ovviamente inascoltati da tutti, gestore compreso!
Era d’estate e poco si intravvedeva della bellissima descrizione degli aquiloni dell’inverno precedente fatta da Khaled Hosseini! Si vedeva qualche burqa, ma tante studentesse non lo portavano e giravano allegre per Kaboul!
Non ebbi modo di vedere il Buzkashi se non nei poster dei negozi del centro o nelle poche cartoline in circolazione. Il Buzkashi è una competizione equestre simile al polo che risale ai tempi di Alessandro Magno; a differenza del polo la palla è sostituita da un montone senza testa; così come ci sfuggì, non ci pensammo nemmeno, una visita al museo di Kaboul.
Lì a Kaboul ebbi la prima sensazione di fuso orario; m’incuriosiva pensare di svegliarmi nello stesso momento che a casa splendevano ancora le stelle o che al calar del sole in Sicilia, era ancora ora di pranzo .
Lo shopping ci prendeva con la sconosciuta e quindi poco redditizia arte del mercanteggiare; riuscimmo ad ordinare e comprare delle bellissime camicie con contrattazioni tendenti all’infinito e troncate dalla improvvisa mia lucidità che individuava il divario tra la domanda e l’offerta in ben tre afghani, 50 lire!
Meno bene andò con il tentativo di acquisto di coloratissimi calzettoni di lana di cammello con suola in pelle, da un ragazzo per strada. Tira e molla e minacce di andare via, con la segreta speranza di essere richiamati appena girato l’angolo, con accordo sulla nostra offerta. Girato l’angolo e non sentendo nulla, tornammo noi sui nostri passi disposti a pagare quanto richiesto: il ragazzo era sparito nel nulla e con lui le bellissime calze di pelo di cammello!
Stessa sorte toccò al tentativo di acquisto delle 500 lire d’argento che volevamo pagare 30 aghani cioè al valore nominale! Si trovavano inoltre lapislazzuli, agate e altre pietre dure, pelli di lupo, pelli di montone lavorate finemente ; comprammo due esemplari di borse; una, la mia, era più piccola e di pelle morbida; quella di Max, più grande , con piccole tasche e di pelle più rigida; caratteristica comune, l’odore pungente che ancora oggi identifico piacevolmente con l’Afghanistan.
Qualcuno trafficava in stupefacenti , rischiando di brutto; altri erano arrivati fin lì in auto: 4 in 500! Uno di loro, romano, si chiamava Giovanni, ci invitò a casa sua quando e se fossimo tornati in Italia. Ricambiammo l’invito; Son cose che si dicono in queste occasioni! Una volta , un anno dopo, passando da Roma , cercai Giovanni al numero che mi aveva dato; mi rispose la sorella, ma, non corriamo, questo lo racconterò dopo!

domenica 8 giugno 2008

L’arrivo in Afghanistan: Herat



La capitale dei timuridi di Tamerlano, ai piedi del Paromiso ci accolse con la sua essenzialità fatta di case di fango, fogne a cielo aperto, che uscivano dalle case come un torrente solidificato dal caldo torrido e si riversano direttamente nelle strade polverose. Niente a che vedere con la mitica città ricca di minareti e bulbi turriti in turchese e lapislazzuli che era prima del 1885, quando gli inglesi consigliarono di distruggere moschee e palazzi per evitare che servissero da rifugio per i nemici russi. Restava solo la Masjid Jami languida visione di quella che fu una bellissima moschea.
L’impatto con la quotidianità fu abbastanza duro. Si giunse la sera con una certa fame. Con un piccolo gruppo di viaggiatori, dopo aver preso un alloggio per la notte, ci recammo presso un locale ristorante. In un’atmosfera buia e fumosa illuminata da poche candele, su un tavolo lercio, senza tovaglia, ci servirono una scodella di riso in cui affondavano per buoni cinque centimetri i pollici del cameriere, incurante di ciò, lasciando, non richieste, le sue impronte digitali; il tutto era condito con una salsa rossa di montone, di cui avevano dimenticato di togliere il vello! Il gusto non era male, la presentazione lasciava a desiderare!
Mangiammo, pensando a voce alta che l’indomani si tornava indietro: in fondo avevamo raggiunto l’ Afghanistan!
Con l’intenzione di prendere domattina il primo pulmann per il ritorno , andammo in albergo.
Parlando con altri viaggiatori, trovarono strano questo nostro atteggiamento di rinuncia dicendoci “solo per questo?” domattina cercheremo un posto più accettabile. Lo trovammo: Il nuovo ristorante era pubblicizzato con piscina; In effetti trovammo una piscina senza acqua, con il fondo ricoperto da una patina verdastra; i tavoli erano coperti da una tovaglia pulita, i pasti serviti in stoviglie apparentemente non inquinate dai pollici dei camerieri, i tovaglioli di stoffa lindi; ci assicuravano anche la potabilità dell’acqua che, a dire del gestore, era del pozzo di proprietà e di conseguenza pulito. Non ci fidammo e trattammo l’acqua con poche gocce di amuchina. Era già tanto e bastò a farci cambiare idea sul proseguire o meno il viaggio.
In passato Herat era una piccola località di provincia relativamente verde caratterizzata da un'atmosfera rilassante, un'oasi di tranquillità in cui cercare rifugio dalle fatiche del viaggio dall'arido deserto.
Nel XV secolo era il centro timuride dell'arte, della poesia, dei dipinti in miniatura e della musica, il luogo in cui le tradizioni della Persia, dell'Afghanistan e dell'Asia centrale si fusero dando vita a una delle massime espressioni culturali di questa parte del mondo.
L'antica cittadella risalente al 1305 è denominata quala. Il bazar coperto del Char Suq ospita negozi e botteghe di ogni tipo. Con una breve camminata dal centro si raggiungono i resti di un'antica madrasa (1417) costruita per volere della regina Gaur Shad. Moglie del sovrano timuride Shah Ruk e nuora di Tamerlano; Gaur Shad era una donna assai capace e riuscì a mantenere intatto l'impero per molti anni. Il suo mausoleo sorge accanto alla madrasa ed è una copia del Gur Emir di Samarcanda.
Ma tutto ciò non sapevamo e non vedemmo. La voglia di avventura ci spingeva con forza oltre, verso l’ignoto. Ripartimmo per Kaboul.

sabato 7 giugno 2008

La frontiera afghana



Il paesaggio desertico si srotolava sotto i nostri occhi, stanchi ma vogliosi di nuovi orizzonti, nuove genti. E poi, ci avvicinavamo all’Afghanistan, il mitico Afghanistan; L'Afghanistan era stato, per tutto il diciannovesimo secolo e nei primi vent'anni del ventesimo, l'irriducibile avversario dell'imperialismo britannico. Dopo la conquista dell'India, l'Inghilterra aveva pensato fosse altrettanto facile impadronirsi di questo aspro Paese stretto tra il Kyber Pass (che porta in Pakistan) e la frontiera con la Russia zarista. Ma gli afghani erano diversi dagli indiani. Non accettavano e non accettano imposizioni dall'esterno, e così come si erano opposti con le armi e con la guerriglia ai tentativi zaristi di sottomissione della loro terra, resero dura la vita agli inglesi, impegnati nelle tre guerre afghane del 1839-42, 1878-80 e 1919 e adesso la rendono dura alle truppe NATO, di cui l’Italia fa parte, fino ad ora con un ruolo militare di basso profilo, ma che, grazie al nuovo governo, si accinge a modificare le regole d’ingaggio in senso più aggressivo! Dal 1933 al 1973 L'Afghanistan è governato dal re Zahir Shah , uomo colto, che nel suo lungo regno , dà il voto alle donne, fonda la prima Università di Kaboul, riesce a mantenere neutrale il suo paese durante la seconda guerra mondiale e dà nel 1964 una nuova e moderna Costituzione all’Afghanistan trasformandola in una moderna democrazia. Ma dopo meno di 10 anni, nel 1973, suo cugino Mohammad Dao Ud, si impadronisce della Presidenza della Repubblica con l’appoggio dell’URSS;re Zahir è costretto a restare in Italia, dove si trovava per cure mediche.

Siamo, durante il nostro viaggio in piena presidenza Dao Ud, anzi ad esser precisi, nei giorni della nostra permanenza a Kaboul, si trovava in Pakistan in visita all’allora primo ministro Benazir Bhutto, di cui conosciamo la tragica sorte. Meno nota, ma altrettanto violenta, fu la sorte di Dao Ud, ucciso anche lui, nel 1978.
Nell’aria che si respirava in Afghanistan nel 1976 non si intravvedevano ancora gli avvenimenti che dal dicembre 1979 al febbraio 1989 portarono l'antico Stato musulmano a diventare il Vietnam della Russia; vi lasciarono la vita non meno di 14 mila soldati russi e almeno mezzo milione furono le vittime afghane. Ma quella guerra, non meno crudele di quella combattuta per vent'anni dagli americani in Vietnam, segnò per sempre il distacco e la irrimediabile contrapposizione tra il mondo islamico e l'impero sovietico, contribuendo forse al crollo di quest'ultimo, con la consacrazione ad eroe del comandante Massud. Gli afghani sono tutti musulmani, ma divisi tra sciiti (20%) e sunniti. Le lingue ufficiali sono il pashto, di origine indoeuropea, e il dari (di tronco persiano). L’etnia principale è quella pashtun, sunniti, che hanno praticamente dominato la vita politica del paese sin dall’inizio della sua indipendenza . Zahir Shah e il mullah Omar sono pashtun. La seconda etnia è tagika di lingua dari, e religione sunnita. Viene poi l’etnia Hazara concentrati nelle montagne, sciiti; seguono poi gli uzbeki, i kirghisi e i turkmeni; infine, etnie minori, sono gli Aimak, i Baluchi, i Braui e i Nuristani.
Lasciata la frontiera persiana, dopo qualche chilometro di polverosa terra di nessuno, ci apparve il miraggio della frontiera afghana: una stalla non di lusso, tutt’altro; tutto era cadente; i muri, i pavimenti, i pochi mobili d’improbabili uffici di frontiera, con altrettanto poco credibili militari, con divise spaiate, fucili che sembravano provenire da una guerra d’altri tempi ed un ufficio cambi che per pochi dollari ci riempì di mazzette di piccole simpatiche banconote d’afghani. Il cambio era di 18,52 lire per 1 afghano. Il clima era molto più rilassato ed anche noi lo eravamo. Sbrigate le formalità di frontiera salimmo su un cadente minibus; il copilota tirò fuori un pezzettino d’afghano nero, che riscosse un successo enorme tra i passeggeri: eravamo davvero in Afghanistan e già pregustavamo i piaceri del viaggio in oriente. Era il 21 agosto 1976.

giovedì 5 giugno 2008

Attraverso la Persia: Tabriz, Teheran e Mashad



Capoluogo dell'Azerbaijan iraniano, Tabriz è situata in una valle chiusa a 1360 metri di altitudine; centro industriale e commerciale, punto di passaggio obbligato tra l'interno dell'Iran ed il Mar Nero, è particolarmente soggetta a terremoti, che più di una volta l'hanno distrutta. Ci colpì la bellezza delle montagne che la circondano. Passammo oltre il grande bazar coperto del XV secolo. Il pulmann giunse dopo circa 700 km a Teheran dove fece una graditissima sosta ! Il cambio era di 12 lire italiane per 1 rial.
Teheran ci accolse con la sua luminosità, il traffico ordinato, grandi viali, il costo della benzina irrisorio e di conseguenza quello dei taxi. Ne prendemmo uno per andare alla banca of Iran (?) dove dovevamo ritirare i traveller’s cheque accreditati da Catania. Era il 19 agosto del ’76.
Dopo rapide informazioni sull’ufficio deputato alla bisogna, lo raggiungemmo attraversando una lunga fila di impiegati , una cinquantina circa, beccati nell’ora del the, in un ampio locale, open space, a tirare fuori dal comodino la tazza personale e un ragazzotto che lo versava passando rapidamente da uno all’altro!
Concludemmo rapidamente l’affare: eravamo giunti a metà percorso, incassato i traveller’s e stavamo rispettando la tabella di marcia. Potevamo proseguire il viaggio con in tasca i nostri preziosi biglietti : li sistemammo nell’apposita, fidata, sacca di pelle marrone, l’appendemmo al collo, la nascondemmo sotto la maglietta e, sempre più sicuri, ci inoltrammo nella città in attesa di ripartire.
Incontrammo diversi ragazzi italiani che facevano lo stesso percorso. Due in particolare mi colpirono. Attaccata al telefono lei parlava con la mamma: “..la Grecia è magnifica, c’è un mare!” In realtà ci trovavamo a Teheran e il loro viaggio prevedeva come meta l’India. Quanti imbrogli, a fin di bene! Noi non avevamo neanche il pensiero del telefono: eravamo in viaggio, anche mentale! Il 2000 era ancora lontano: l’era dei telefonini, dei satellitari, della rete non l’immaginavamo nemmeno!
Giunti a Mashad, sede del santuario di Alì nel Korasan iraniano, città sacra perchè luogo di sepoltura dell'ottavo Imam dello Sciismo duodecimano Alī al-Ridā, ci fermammo per passare la notte. Nell’attesa, e giusto per fare due passi e vedere la città, accettammo l’invito di due ragazzini che si offrirono come ciceroni. Ci condussero in un negozio del fratello lungo una via polverosa dove, dopo l’immancabile the, ci mostrarono una quantità inverosimile di tappeti, piccoli, medi e grandi, sottolineando le caratteristiche salienti. “Questi sono annodati a mano su telaio verticale con 640.000 nodi al metro quadrato con filo in lana ricco di lanolina e seta naturale, trama in cotone e ordito in seta naturale” i colori andavano dall’oro all’avorio, dal pistacchio alla senape, dal rosso prugna al lilla, dal salmone al marrone al blu, in disegni floreali difficilmente descrivibili: veramente belli! Ma diverse motivazioni ci impedivano di acquistarli: primo, avevamo pochi soldi; secondo, eravamo al viaggio d’andata e veniva leggermente scomodo viaggiare con un tappeto , anche se persiano, di 2 metri x 1,5, arrotolato nelle tasche dello zaino militare, esercito o marina, in giro per deserti, montagne e quanto ancora non sapevamo. Con l’impegno(?) di ripassare al ritorno ritornammo in albergo.

giovedì 29 maggio 2008

Il viaggio fino a Erzurum



Giungemmo nell’altopiano di Erzurum, nell’est dell’Anatolia, dopo un viaggio infinito che partiva da Istanbul. Il bus era moderno, con comode poltrone e una cantina per le bibite fresche che il ragazzo distribuiva a cadenze fisse, intervallate dall’aspersione di un liquido profumato che veniva versato sulle mani dei passeggeri adulti e sui capelli dei bambini con immediato ristoro. Dopo aver attraversato tutta l’Anatolia, fermandosi giusto il tempo per una breve sosta alla stazione di Ankara, il bus si fermò davanti un cadente albergo dove avremmo passato la notte e da dove saremmo ripartiti l’indomani con destinazione Persia. Era la prima tappa, forse la più dura!
La storia e le bellezze della città passarono inosservate: mi resta soltanto il ricordo della stanchezza del viaggio, la parca cena con riso, kebab e salsiccie sotto il cumulo di riso bianco e melenzane lunghe al pomodoro.
Ci sfuggì certamente la storia millenaria della città risalente al 4000 AC, con le numerosisime dominazioni che vanno dai Persiani ai Parti, dai Romani ai Bizantini, dagli arabi ai Mongoli fino ai Turchi, le mura bizantine ancora intatte e le bellezze archeologiche custodite al Museo di Erzurum.
Nulla ricordo della città selgiuchida e della grande moschea costruita nel 1179 con le sue numerosissime colonne che dividono le sette navate, il doppio minareto e la Madrassa del 13° secolo. Il mio ricordo si ferma alle strade polverose, ai venditori d’acqua alle fermate degli autobus servita in bicchieri di rame, sempre gli stessi, per i diversi avventori.
Non riuscimmo a vedere la tipica pietra semipreziosa locale denominata Oltu, ricavata dalle centinaia di miniere della zona, di origine fossile, che ha la caratteristica di essere morbida appena estratta e dura dopo l’esposizione all’aria: non ne conoscevamo l’esistenza.
Dopo una notte in cui recuperammo le forze, l’indomani all’alba ripartimmo con un nuovo pulmann. La sagoma del famoso monte Ararat, denominato Urartu dagli ebrei e Agri Dagi dai turchi, con i suoi 5165 metri di altitudine, si stagliava all’orizzonte, la cima innevata, al confine con l’Armenia e la Persia; la leggenda vuole fosse il luogo dove si fermò l’arca di Noè. Storia o leggenda, a noi bastava crederlo e sognare ad occhi aperti le numerose coppie di animali che si affollavano sull’arca, come le persone e gli animali che in quel momento affollavano quell’autobus che si avviava verso oriente e, per noi, verso l’ignoto. Ci lasciammo a destra il mitico lago Van senza nemmeno vederlo e giungemmo in Persia con destinazione Tabriz.

Era il 18 agosto del 1976

venerdì 23 maggio 2008

Istanbul



La città ci accolse con la sua aria cosmopolita. Risalimmo la strada che dalla stazione giungeva alla chiesa di Santa Sofia e la Moschea blu. Trovammo alloggio in un lercio hotel nei pressi del “pudding shop”. Il Pudding Shop era il nomignolo del "Lale Restaurant" nel cuore di Sultanahmet divenuto il punto di ritrovo e di partenza per tutti gli hippies o presunti tali, lungo la via dell’oriente.

Mentre sorseggiavamo un chai, chiesi ad una ragazza che tornava dall’oriente, com’era oltre il ponte. Mi rispose : “alla cannella” riferendosi al the piuttosto che ai luoghi che ci accingevamo a visitare! Lasciai perdere, anche perché il nostro inglese era meno che basico: cominciavamo ad imparare da zero! Quanto costa? E’ troppo caro! Avete una camera per due? E così discorrendo…
Ci fermammo qualche giorno giusto per prendere confidenza con le novità della nuova situazione, sondare le possibilità che erano offerte nella bacheca degli avvisi, le proposte delle agenzie di viaggi e così via.
Le proposte partivano da viaggio per Katmandu in magic bus , durata 15 gg, a quelle ben più abbordabili, con comodi bus con servizio bar a bordo, che ci avrebbero portato ad Erzurum, capoluogo dell’Anatolia orientale, alla ragguardevole altitudine di 1950 m slm. Da lì avremmo potuto proseguire con destinazione Persia e oltre.
Optammo per questa soluzione in modo da assaporare il viaggio e tastare le nostre capacità di sopportare un viaggio alla scoperta dell’ignoto. Ci ripromettemmo di visitare Istanbul, già Costantinopoli, già Bisanzio al ritorno, se ci fosse stato un ritorno!
Eravamo già a fare i conti con il secondo cambio , lire turche/dollari e traduzione in lire italiane. Un tentativo maldestro di cambio in nero ci riportò alla cruda realtà. Riuscimmo a non farci imbrogliare da due tipi loschi che tentarono di fregarci quelle poche banconte che avevamo. Dopo ci sentivamo più forti.
Partimmo e l’attraversamento del ponte sul Bosforo (allora era unico) mi dava un certo brivido: passavamo in un sol balzo dall’Europa all' Asia.

venerdì 16 maggio 2008

Prima tappa: da Catania a Istanbul



CATANIA 10/8/1976 Km 0
Il giorno della partenza ci vide partire da P.zza Borgo (meno nota come p.zza Cavour) con un autobus urbano che non arrivava mai; gli orari di passaggio degli autobus non erano rispettati, e non lo sono tutt’ora; anzi non esistevano affatto e tu aspettavi fino a quando era necessario. Erano più frequenti le macchine abusive, le multiple Fiat; non quelle del terzo millennio ma quelle degli anni sessanta senza il muso e affusolate in coda, il massimo dell’antitesi dell’aerodinamicità, verniciate in verde e nero, con gli strapuntini, con un carico umano di 10 persone trasportate per un biglietto (?) da cinquanta lire, equivalente al prezzo del biglietto dell’autobus; il conducente , il capo, pressato dalla sua mole e dallo stretto posto di guida, mostrava la mano aperta per indicare la linea coperta dal tragitto, la 5, anche se, ormai da un pezzo, nelle ristrutturazione delle linee la 5 era diventata 31: troppo complicato cercare di mimarlo ! Ma stavolta la nostra linea era la 29 che saliva alla Barriera. Aspettammo il bus. Appena giunto, zaino in spalla, l’avventura iniziava. In men che non si dica ci portò all’imbocco dell’autostrada. L’attesa non la ricordo lunga. Giungemmo rapidamente a Messina lasciandoci sulla sinistra la maestosa visione dell’Etna attraverso la Valle del Bove; e poi dopo lo stretto su per la Calabria e la Puglia. Ricordo, passammo da una Lamborghini 5 litri ad una Cinquecento Fiat con la sensazione di essere fermi sulla strada.
Giungemmo a Brindisi dove il 12/8/76 ci imbarcammo su una nave dell’Adriatica, biglietto passaggio ponte, ovviamente!La navigazione procedette senza problemi e dopo aver intravisto le coste dell’Albania, giungemmo a Patrasso dove un treno ci portò a Istanbul: era il 15 agosto del ’76 e il profumo d’oriente cominciava a farsi sentire.

martedì 6 maggio 2008

I protagonisti del viaggio

Foto: la mitica 5^B

Io e Max avevamo concluso il 2° anno rispettivamente della Facoltà di Medicina e di Ingegneria.
Passai la mia infanzia, dai quattro ai dodici anni, con la nonna materna; completati gli studi in seminario, viveva con noi lo zio prete .
E’ stata una infanzia caratterizzata da una educazione che adesso giudico repressiva, sia in casa che a scuola; in casa volavano ogni tanto ceffoni, a mio parere non giustificati e a scuola, una istituzione salesiana a Randazzo, vivevo di punizioni; in realtà osservavo le tremende punizioni dei miei compagni, (io ero sempre ligio al dovere e alle disposizioni,) rei di parlottare in sala studio o di rientri in collegio con lievi ritardi. Qualcuno adesso fa il medico e qualcuno il critico d’arte di fama internazionale! Le punizioni spaziavano da ripetuti sonori ceffoni a due o tre dita (don Messina), per gli interni, a ripetute scampanellate sul cranio (don Cutrufelli), per gli esterni, a permanenze in ginocchio nell’ora di pranzo o di ricreazione, per entrambi! Altri metodi educativi! Qualcuno (Sergio) ricambiava con lanci del calamaio, c’erano ancora i calamai ed i pennini, all’indirizzo dei superiori! Ricordo anche, per altri meriti, il signor Reina, laico, a cui è legato il ricordo della prima gita a M. Spagnolo, che poi diventerà la meta preferita delle mie escursioni in montagna; ricordo anche la perdita della grossa anguria affondata nella cisterna attigua alla casermetta , dopo essersi slegata dall’improbabile cappio a cui il signor Reina l’aveva assicurata! Ancora don Zocco magrissimo insegnante di italiano, latino, storia, geografia e applicazioni tecniche con zigomi sporgenti da far paura , da sindrome lipodistrofica in tempi non sospetti!
Sono tornato recentemente (nel 1998!) a monte Spagnolo con Pippo, la sicura guida, e i ragazzi, in un giro che tutti ricordano ancora con piacere; gli alberi, che erano stati messi a dimora trent’anni prima erano diventati un enorme bosco di conifere che si intrecciava con la faggeta secolare, in una tavolozza virtuale, ricca di infinite sfumature !
Vivevo a Randazzo un bellissimo borgo medievale, a nord dell’Etna, che allora contava ben 15.000 abitanti, bagnato dal fiume Alcantara, che nato sui Nebrodi, si tuffava dopo cinquanta chilometri, nel mare Jonio, dopo aver superato delle spettacolari gole basaltiche .

Io non ero conosciuto come Angelo ma come il nipote di padre Ignazio e tutt’ora, nelle rare visite, vengo ancora presentato come: “il nipote di padre Ignazio, diciamo” anche se padre Ignazio non era più prete e adesso che scrivo, non è più tra noi.
L’abbigliamento era tipico ed oscillava da abiti usati acquistati “a fera ‘o luni” a poche centinaia di lire a jeans attillatissimi , il cui modello di riferimento era Paolo. In realtà , pur usandoli, preferivo quelli più ampi e comodi magari con tante cerniere. Anche le camicie erano o attillate o enormi, a volte militari; i capelli e la barba lunghi , con taglio fai-da-te semestrale con occhiali rotondi obbligatori. Mi piaceva quel look e occasionalmente usavo un orecchino a clip, senza buco, alla Corto Maltese nascosto tra i capelli.
Gli studi procedevano bene e avevo superato gli esami del II anno e iniziato il III. La strategia di studio mi portava a studiare tutto l’anno, dalle 7 alle 21, dare esami fino ai primi di luglio e poi pausa di riflessione o di lavoro fino all’autunno. Applicai questa tattica fino alla fine del corso di studi e devo dire con buoni risultati; non mi sono annoiato e non sono scoppiato!
Donne, poche! Eravamo tutti innamorati di Irina ed io anche di Lorena che reputavo, a torto, irrangiungibile! Il giudizio si deve dare alla fine della vita e forse anche dopo!
Massimo era quel che si dice un genietto, con brillanti risultati negli studi e atteggiamenti da saputello in molte circostanze; buon conoscitore della musica rock e momenti di abbandono totale a mitiche ubriacature di cui scontavo le conseguenze con sonori rimproveri da parte di sua madre che, anziché sgridare lui, se la prendeva con me che ero savio e già da allora “crocerossino”, e poi, si sa, non è mai colpa dei figli ma delle cattive amicizie! Con in testa poche idee ma confuse sull’oriente, sui figli dei fiori, sul “viaggio”, trent’anni dopo Jean-Louis Lebris de Kerouac, meglio noto come Jack Kerouac ci mettemmo sulla strada!

mercoledì 30 aprile 2008

I preparativi del viaggio



I preparativi del viaggio

La decisione fu presa senza pensarci più di tanto. La meta del viaggio era in prima ipotesi, la Cina sulle orme di Marco Polo. La Cina si sa è lontana; Non avevamo idea della distanza, dei tempi, dei mezzi di trasporto, delle difficoltà, dei rischi, dei visti e dei soldi necessari per siffatto viaggio.
Mi procurai i soldi lavorando per 2 mesi con Pippo, Salvo e Gianni, tre amici artisti, che mi avevano assunto come aiutante per la realizzazione di un enorme bassorilievo in cemento armato nella navata laterale di una chiesa di Carlentini, ridente paesello del siracusano (sono tutti ridenti i paeselli di ogni area geografica) dove il parroco ci offriva vitto, alloggio; il prezzo pattuito che era stato diviso per tre e poi due parti (quello di Pippo e Gianni) ancora in tre comprendente la mia; il tutto perché Salvo non riconosceva la mia condizione d’artista, forse a ragione . Apprezzai il gesto degli amici e non serbai rancore per Salvo. Tutto ciò mi permise di realizzare il viaggio. In effetti, nel mio piccolo, mi scoprii un “artista” potendo realizzare uno dei sei pannelli che costituivano il bassorilievo: la vite e tralci è tutt’ora visibile, orgoglio dei parrocchiani e soprattutto del parroco che ci commissionò l'intero lavoro per la misera somma di due milioni e quattrocentomila lire del vecchio conio. Il pasto serale consumato nella canonica, arredata in modo spartano, era piuttosto ripetitivo ma non per questo meno appetibile; una grande quantità di verdure tipo “caliceddi” con un tocco di amaro che raramente riesco a gustare alle latitudini della mia attuale vita, preparato dalla perpetua, condito con un olio di olive ricco di gusto antico; ma la mia specialità era una megafrittata di un uovo a persona più uno per la padella che riuscivo a variare ora con cipolle, ora con patate o con zucchini a seconda della disponibilità; il rinforzino era dato da una piccola forma di pecorino con chicchi di pepe nero di un sapore che veniva esaltato dalla prolungata masticazione e dal pane locale a pasta fitta; il tutto era incensato da un vinello locale senza denominazione ma certamente adatto ai piatti sopradetti. Ripensando a quei momenti non riesco a scordare quei profumi e gusti sopraffini!
Il dopo cena era un mostrarsi in piazza in un andirivieni infinito assumendo atteggiamenti da artisti con lavori commissionati inesistenti a Parigi e dintorni.
Vivevo bene quell’esperienza ma pensavo al viaggio imminente, alle future scoperte , ai rischi connessi. Mio padre, che non aveva un’idea della geografia mondiale, alla notizia che ero in procinto di partire per la Cina, ritenendo comunque che fosse una meta lontana, mi suggerì la Puglia che è notoriamente più vicina.
Le difficoltà non erano poche; c’era di mezzo anche la crisi economica e le limitazioni bancarie sull’esportazione di valuta.
Non era possibile esportare capitali se non in quantità limitata. Comprammo dei dollari, per quel che si poteva, che allora valevano circa 800 delle vecchie lire ed il restante in travellers cheques. “Dove volete che ve li appoggiamo i travellers?” disse il funzionario della banca. Non pensavamo che i travellers si appoggiassero da qualche parte! non avevamo idea. Rapidamente facemmo un calcolo: “in media stat virtus” Non in Cina, notoriamente troppo lontana, non ad Istambul, troppo vicina. “Facciamo Teheran” con fare da grandi commercianti internazionali. “Si, Teheran ci va bene”. “Va bene anche a noi” disse il funzionario “a Teheran abbiamo una banca nostra corrispondente, voi passate da lì e potete ritirare i vostri travellers”. Non eravamo certi di aver fatto un buon affare ma il nostro ragionamento era corretto; coi soldi in tasca riusciamo ad arrivare più o meno a destinazione; se ci saranno problemi e non riusciremo a raggiungere Teheran avremo i soldi per tornare senza problemi; se tutto filerà liscio avremo i soldi per raggiungere la Cina e fare ritorno!
Sistemammo i documenti bancari, il passaporto verde della repubblica italiana, rinnovato di fresco con marca da bollo di ben 4000 lire , e i soldi nella busta di pelle morbida di vitello che avevamo confezionato con cura e con il cordino in pelle che la cuciva, la sistemammo al collo: non l’avremmo mai dovuto abbandonare e avrebbe dormito sempre con noi! Ne andava della buona riuscita del viaggio.

Contesto storico in Italia e nel mondo


Contesto storico in Italia e nel mondo

Erano appena finite le olimpiadi di Montreal con la strepitosa doppia vittoria di Lasse Viren nei 5000 e 10000 metri, che ripeteva la doppietta di Monaco del ’72 ed era il tempo degli allenamenti triquotidiani di Dave Bedfort ; io mi cullavo già sui ricordi delle mie performances sui 1000 piani e sui 1500 siepi che con allenamenti quotidiani, sotto la guida del mitico Prof. Cazzetta (cosa farà adesso?), da allievo, cioè cinque anni prima, coprivo rispettivamente in 2’ 52’’ e 4’ 49’’ che a me sembravano favolosi ma che erano ampiamente superati da altri atleti già a livello provinciale; ma ero lì, nel gruppo di testa, diciamo così; e che dire della mia lunga pausa, lunga trent’anni in cui non praticai alcun sport se non quello dello studio, e che mi ha riportato a considerare quei tempi eccezionali e irraggiungibili. Adesso se va bene, cioè se mi alleno con una frequenza trisettimanale (non triquotidiana alla Bedfort) i miei tempi sono di 4’15’’ sul kilometro magari tenuti per 5000!
Mi soffermo sul mezzofondo perché era ed è la mia passione ma altri atleti ricordo di quella olimpiade, in particolare Alberto Juantorena, cubano, detto “el caballo” per la sua eleganza e potenza nella corsa, magnifico vincitore dei 400 in 44’26’’ e degli 800 in 1’43’’50 con record del mondo strappato al sudafricano nazionalizzato italiano Marcello Fiasconaro. Il 5 agosto Stones fa il record mondiale di salto in alto,
L’atletica! “Storia di una regina”, come Pippo già nel ’70 scriveva , scordandosi degli impegni del primo anno dello scientifico e trasferimento l'anno successivo al liceo artistico.
Ma bando ai rimpianti: “essere più di una volta non si può” diceva saggiamente mio padre!
Il 7 agosto il Viking II entra in orbita su Marte e il giorno dopo la squadra italiana di tennis vince la finale europea di Coppa Davis.
Il 10, zaino in spalla, partimmo anche noi: destinazione Cina!

martedì 29 aprile 2008


VIAGGIO A KABOUL

Introduzione
Il perché di un racconto di viaggio è sempre difficile da spiegare; più facile è comprendere il perché viene scritto a oltre trent’anni di distanza: quasi un rituffarsi nel passato, nel tempo della tua gioventù trascorsa e che banalmente potrebbe tornare mentre esiste solo nei tuoi ricordi; o anche solo dalla constatazione dei tuoi cinquant’anni, già trascorsi da un po’, il picco di una montagna adesso in ripida discesa, sempre più accidentata e sempre più indirizzata all’epilogo e la voglia forse di non disperdere le esperienze pur belle di una vita ; comunque inutile. Ricordi interessanti, attualizzati dai recenti avvenimenti politici in un Paese che viveva ai margini del Medioevo già allora e che è sprofondato nella barbarie negli ultimi anni nonostante le notizie di stampa forzatamente tranquillizzanti.
Ho seguito gli avvenimenti dell’Afghanistan, l’invasione sovietica, le lotte per il potere, i talebani, con l’interesse di chi quei luoghi li ha visti, li ha vissuti, anche se per poco tempo e limitatamente nella dimensione di un viaggio e pertanto in maniera episodica, quasi da una finestra che si è aperta in quell’ ormai lontano agosto del 1976, due decenni dopo Kerouac!
Ciao! ci sono anch'io.
forse riuscirò a scrivere il mio racconto senza rivisitazioni e censure.
Inizierò appena possibile!