mercoledì 11 giugno 2008

Finalmente Kaboul


La città ci accolse con una carrozzella che ci condusse in Hotel; non ricordo il nome (Rainbow?). Passammo lì la prima notte in una mega camerata poco gradevole. Era il 24 agosto del ’76. Dal giorno seguente ci trasferimmo in uno più potabile, posto in una stradina laterale, nei pressi di chicken street. Accanto all’hotel vi era un forno per il pane dove, gli avventori, acquistavano un pane, tipo pizza, che veniva cotto in una grossa giara interrata, nel cui fondo c’era il fuoco; il pane o la pizza che sia, veniva attaccata, non so come, alla parete e tirato fuori, a cottura ultimata, con un gancio; qualcuno lo condiva con verdure varie e poi lo arrotolava.
La giornate scorrevano tranquille ed erano scandite dai ritmi dei pasti; colazione in albergo con the nero e “apple pie” acquistato nella vicina panetteria dove, tra gli scaffali, correvano piccoli e grandi scarafaggi; pranzo al ristorante dell’angolo con kebab in varie preparazioni, dove un grosso, nero, spelacchiato ratto girava lentamente indisturbato tra i tavoli e la cucina; appena fuori, alla porta accanto, vendevano dei pericolosissimi favolosi frullati di fragole o melone e ghiaccio tritato che spegnevano l’arsura pomeridiana; alle cinque the di menta ed alla sera, altro ristorante con musica, riso pilau, vegetali ed una enorme bistecca impanata. L'acqua era presa dalla fontanella e trattata con amuchina e gocce di lyme nella borraccia militare. Era proprio tranquilla Kabul nel 1976; i commercianti del centro contavano mazzette di dollari, l’artigianato era fiorente con produzione di oggetti di rame e simili, lavorati con incisioni floreali di cui conservo ancora un esemplare: un boccale usato solo a scopo decorativo per via dell’ossido che vi si è depositato; il turismo di cui noi eravamo i rappresentanti poveri marciava a gonfie vele. Le attrazioni, le comodità catturavano molti viaggiatori che, a volte storditi dai fumi della Cannabis, scordavano l’obiettivo del viaggio o forse era quello l’obiettivo del viaggio: fumo a basso costo, con disponibilità infinita e senza o quasi i rischi di casa nostra, anche se non era più legale dal 1974 e nella hall dell’hotel campeggiava un cartello che avvertiva dei rischi, ovviamente inascoltati da tutti, gestore compreso!
Era d’estate e poco si intravvedeva della bellissima descrizione degli aquiloni dell’inverno precedente fatta da Khaled Hosseini! Si vedeva qualche burqa, ma tante studentesse non lo portavano e giravano allegre per Kaboul!
Non ebbi modo di vedere il Buzkashi se non nei poster dei negozi del centro o nelle poche cartoline in circolazione. Il Buzkashi è una competizione equestre simile al polo che risale ai tempi di Alessandro Magno; a differenza del polo la palla è sostituita da un montone senza testa; così come ci sfuggì, non ci pensammo nemmeno, una visita al museo di Kaboul.
Lì a Kaboul ebbi la prima sensazione di fuso orario; m’incuriosiva pensare di svegliarmi nello stesso momento che a casa splendevano ancora le stelle o che al calar del sole in Sicilia, era ancora ora di pranzo .
Lo shopping ci prendeva con la sconosciuta e quindi poco redditizia arte del mercanteggiare; riuscimmo ad ordinare e comprare delle bellissime camicie con contrattazioni tendenti all’infinito e troncate dalla improvvisa mia lucidità che individuava il divario tra la domanda e l’offerta in ben tre afghani, 50 lire!
Meno bene andò con il tentativo di acquisto di coloratissimi calzettoni di lana di cammello con suola in pelle, da un ragazzo per strada. Tira e molla e minacce di andare via, con la segreta speranza di essere richiamati appena girato l’angolo, con accordo sulla nostra offerta. Girato l’angolo e non sentendo nulla, tornammo noi sui nostri passi disposti a pagare quanto richiesto: il ragazzo era sparito nel nulla e con lui le bellissime calze di pelo di cammello!
Stessa sorte toccò al tentativo di acquisto delle 500 lire d’argento che volevamo pagare 30 aghani cioè al valore nominale! Si trovavano inoltre lapislazzuli, agate e altre pietre dure, pelli di lupo, pelli di montone lavorate finemente ; comprammo due esemplari di borse; una, la mia, era più piccola e di pelle morbida; quella di Max, più grande , con piccole tasche e di pelle più rigida; caratteristica comune, l’odore pungente che ancora oggi identifico piacevolmente con l’Afghanistan.
Qualcuno trafficava in stupefacenti , rischiando di brutto; altri erano arrivati fin lì in auto: 4 in 500! Uno di loro, romano, si chiamava Giovanni, ci invitò a casa sua quando e se fossimo tornati in Italia. Ricambiammo l’invito; Son cose che si dicono in queste occasioni! Una volta , un anno dopo, passando da Roma , cercai Giovanni al numero che mi aveva dato; mi rispose la sorella, ma, non corriamo, questo lo racconterò dopo!

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