martedì 24 giugno 2008

L’estensione a Bandyamir



Il viaggio fino a Bandyamir durò circa 7 ore, stavolta con un minibus, certamente più comodo del truck. Giungemmo in un posto da favola tra le remote e selvagge montagne dell’Hindu Kush in una valle che racchiudeva cinque laghetti ( ma forse erano di più); erano di un blu elettrico mai visto, imitante i lapislazzuli, che, dagli alti margini di roccia, straripavano in cascatelle; prima di disperdersi nel fondo valle, azionavano le pale di numerosi mulini ad acqua e, in un paesaggio brullo tipo Gran Canyon, formavano dei miraggi; mi sono chiesto e mi chiedo tutt’ora da dove giungessero i cereali, visto che tutt’attorno era un paesaggio arido per chilometri e chilometri!
Il villaggio, che sembrava solo esclusivamente turistico, era formato da una doppia fila di poco invitanti hotel dai nomi altosonanti, ripetitivi e rievocativi; andammo tanto per cambiare al Marco Polo Hotel, una baracca di fango con dei pavimenti dello stesso materiale, sacchi di plastica alle finestre, giacigli di corde intrecciate, lavabo nel dehor e latrina all’aperto con una parvenza di riparo da occhi indiscreti, visitata solo una volta e poi abbondonata per la presenza massiccia di terribili mosconi blu. Erano certamente gli stessi che ricoprivano totalmente i mucchi di uva passa del negozietto all’inizio del villaggio e che venivano allontanati dal movimento della mano del venditore poco prima di affondarla nel mucchio dello squisito frutto!
Oltre ai camerieri afgani c’era anche un italiano che per vitto e alloggio serviva ai tavoli in attesa di un improbabile arrivo di fondi da casa! Come avrebbero fatto ad arrivare fin là me lo chiedo ancora adesso!
Una notte, dopo aver impastato al lume di candela del polline di Cannabis varietà indica, che un compagno di viaggio aveva acquistato a Kaboul, formando dei piccoli panetti per uso familiare e usando come unguento la saliva, bussarono alla porta chiamando: “Doctor, doctor”. Fui meravigliato per questo titolo che certamente era esagerato avendo superato soltanto gli esami del 2° anno di Medicina e che comunque non era a conoscenza di altri se non di Max; “Sei tu il dottore” disse Max “io, tutt’al più, sarei ingegnere!” Chiesi cosa volesse ed in francese mi disse che nell’hotel di fronte c’era un cuoco che stava male e, secondo lui, che era un veterinario, era rimasto paralizzato. Ero abbastanza preoccupato per la situazione che si stava creando, sia per il buio della notte sia per le mie capacità diagnostico-terapeutiche. Mi avviai col quasi collega veterinario, portandomi dietro la mia borsetta da viaggio dei medicinali che, probabilmente, era stata la causa dell’equivoco. Attraversai il piazzale in un silenzio surreale e con una stellata resa più intensa dalla luna nuova; entrai nel locale adibito a cucina dove, in un ambiente illuminato dalla fioca luce di una candela , stava disteso il malcapitato; disteso come una mummia egiziana, era stato avvolto con delle lunghissime bende lasciando scoperti ambedue i piedi. Raccolsi diligentemente l’anamnesi, per quel che potevo, e, dato che ero ai piedi del paziente, mi balenò alla mente di sfiorare una alla volta le piante, suscitando una pronta retrazione degli arti del malato. “Non è paralizzato “ sentenziai “Probabilmente si tratta di una sindrome da raffreddamento “ aggiunsi con fare da professorone e ordinai di sfasciare la mummia; questo lavoro durò almeno quindici minuti, tante erano le bende! Tirai fuori dal mio armamentario terapeutico, due compresse di aspirina; ne prescrissi una subito e una dopo sei ore ordinando: “dopo i pasti!”. Tutti si affannarono a portare al malato del cibo.
Tornai in Hotel con il timore di una errata diagnosi e soprattutto con il timore di una intolleranza all’aspirina. Passai una notte agitata. Era stato il mio primo intervento medico senza il titolo e soprattutto la capacità per esercitare!
L’indomani mentre lavavo il viso nel lavabo del dehor, intravidi un tipo che dall’hotel di fronte mi salutava calorosamente. “E’ il malato di stanotte “ disse Max “e, a quanto pare, sta benissimo: complimenti!” Mi sentii sollevato e come premio pensavamo di aver rimediato un pranzo per mezzogiorno, graditi ospiti del padrone e del cuoco. Alla fine del pranzo il padrone ci portò il conto e come ringraziamento per la visita e guarigione del suo cuoco, due tazze di yogurt di cui avremmo fatto volentieri a meno.
La voce del medico guaritore fece rapidamente il giro del villaggio e in mattinata un discreto numero di persone aspettavano di essere visitate dallo stregone bianco che aveva guarito il cuoco. Un ragazzetto mi mostrò una ferita infetta ad una mano che ripulii con quello che avevo nella mia cassettina; un vecchietto si mise tossire per mostrarmi i sintomi della sua malattia; dispensai anche a lui qualcosa, forse dei teofillinici. Mentre io mi gingillavo a fare il dottore, in quei giorni veniva segnalato in Zaire la prima epidemia da virus Ebola: presagio di un prossimo futuro!
Non vedevo l’ora di partire temendo sia le reazioni avverse sia gli effetti del famoso yogurt.
Non mi sbagliavo; dopo meno di 24 ore dal pasto, in viaggio per Kabul, vomitavamo a più non posso e la diarrea non ci mollava, costringendoci a chiedere ripetutamente all’autista degli stop fuori programma; quando la strada passò accanto ad un fresco torrentello ricambiò le nostre richieste con il perentorio ordine di pulizia del suo mezzo insozzato dal vomito di Max. Ripassammo da Bamiyan dando un rapido sguardo alle statue di Budda consapevoli che non li avremmo più riviste perché poste in un posto remoto, inconsapevoli dei tragici avvenimenti futuri, per l’arte certamente, ma anche per gli uomini.

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