martedì 24 giugno 2008

L’estensione a Bandyamir



Il viaggio fino a Bandyamir durò circa 7 ore, stavolta con un minibus, certamente più comodo del truck. Giungemmo in un posto da favola tra le remote e selvagge montagne dell’Hindu Kush in una valle che racchiudeva cinque laghetti ( ma forse erano di più); erano di un blu elettrico mai visto, imitante i lapislazzuli, che, dagli alti margini di roccia, straripavano in cascatelle; prima di disperdersi nel fondo valle, azionavano le pale di numerosi mulini ad acqua e, in un paesaggio brullo tipo Gran Canyon, formavano dei miraggi; mi sono chiesto e mi chiedo tutt’ora da dove giungessero i cereali, visto che tutt’attorno era un paesaggio arido per chilometri e chilometri!
Il villaggio, che sembrava solo esclusivamente turistico, era formato da una doppia fila di poco invitanti hotel dai nomi altosonanti, ripetitivi e rievocativi; andammo tanto per cambiare al Marco Polo Hotel, una baracca di fango con dei pavimenti dello stesso materiale, sacchi di plastica alle finestre, giacigli di corde intrecciate, lavabo nel dehor e latrina all’aperto con una parvenza di riparo da occhi indiscreti, visitata solo una volta e poi abbondonata per la presenza massiccia di terribili mosconi blu. Erano certamente gli stessi che ricoprivano totalmente i mucchi di uva passa del negozietto all’inizio del villaggio e che venivano allontanati dal movimento della mano del venditore poco prima di affondarla nel mucchio dello squisito frutto!
Oltre ai camerieri afgani c’era anche un italiano che per vitto e alloggio serviva ai tavoli in attesa di un improbabile arrivo di fondi da casa! Come avrebbero fatto ad arrivare fin là me lo chiedo ancora adesso!
Una notte, dopo aver impastato al lume di candela del polline di Cannabis varietà indica, che un compagno di viaggio aveva acquistato a Kaboul, formando dei piccoli panetti per uso familiare e usando come unguento la saliva, bussarono alla porta chiamando: “Doctor, doctor”. Fui meravigliato per questo titolo che certamente era esagerato avendo superato soltanto gli esami del 2° anno di Medicina e che comunque non era a conoscenza di altri se non di Max; “Sei tu il dottore” disse Max “io, tutt’al più, sarei ingegnere!” Chiesi cosa volesse ed in francese mi disse che nell’hotel di fronte c’era un cuoco che stava male e, secondo lui, che era un veterinario, era rimasto paralizzato. Ero abbastanza preoccupato per la situazione che si stava creando, sia per il buio della notte sia per le mie capacità diagnostico-terapeutiche. Mi avviai col quasi collega veterinario, portandomi dietro la mia borsetta da viaggio dei medicinali che, probabilmente, era stata la causa dell’equivoco. Attraversai il piazzale in un silenzio surreale e con una stellata resa più intensa dalla luna nuova; entrai nel locale adibito a cucina dove, in un ambiente illuminato dalla fioca luce di una candela , stava disteso il malcapitato; disteso come una mummia egiziana, era stato avvolto con delle lunghissime bende lasciando scoperti ambedue i piedi. Raccolsi diligentemente l’anamnesi, per quel che potevo, e, dato che ero ai piedi del paziente, mi balenò alla mente di sfiorare una alla volta le piante, suscitando una pronta retrazione degli arti del malato. “Non è paralizzato “ sentenziai “Probabilmente si tratta di una sindrome da raffreddamento “ aggiunsi con fare da professorone e ordinai di sfasciare la mummia; questo lavoro durò almeno quindici minuti, tante erano le bende! Tirai fuori dal mio armamentario terapeutico, due compresse di aspirina; ne prescrissi una subito e una dopo sei ore ordinando: “dopo i pasti!”. Tutti si affannarono a portare al malato del cibo.
Tornai in Hotel con il timore di una errata diagnosi e soprattutto con il timore di una intolleranza all’aspirina. Passai una notte agitata. Era stato il mio primo intervento medico senza il titolo e soprattutto la capacità per esercitare!
L’indomani mentre lavavo il viso nel lavabo del dehor, intravidi un tipo che dall’hotel di fronte mi salutava calorosamente. “E’ il malato di stanotte “ disse Max “e, a quanto pare, sta benissimo: complimenti!” Mi sentii sollevato e come premio pensavamo di aver rimediato un pranzo per mezzogiorno, graditi ospiti del padrone e del cuoco. Alla fine del pranzo il padrone ci portò il conto e come ringraziamento per la visita e guarigione del suo cuoco, due tazze di yogurt di cui avremmo fatto volentieri a meno.
La voce del medico guaritore fece rapidamente il giro del villaggio e in mattinata un discreto numero di persone aspettavano di essere visitate dallo stregone bianco che aveva guarito il cuoco. Un ragazzetto mi mostrò una ferita infetta ad una mano che ripulii con quello che avevo nella mia cassettina; un vecchietto si mise tossire per mostrarmi i sintomi della sua malattia; dispensai anche a lui qualcosa, forse dei teofillinici. Mentre io mi gingillavo a fare il dottore, in quei giorni veniva segnalato in Zaire la prima epidemia da virus Ebola: presagio di un prossimo futuro!
Non vedevo l’ora di partire temendo sia le reazioni avverse sia gli effetti del famoso yogurt.
Non mi sbagliavo; dopo meno di 24 ore dal pasto, in viaggio per Kabul, vomitavamo a più non posso e la diarrea non ci mollava, costringendoci a chiedere ripetutamente all’autista degli stop fuori programma; quando la strada passò accanto ad un fresco torrentello ricambiò le nostre richieste con il perentorio ordine di pulizia del suo mezzo insozzato dal vomito di Max. Ripassammo da Bamiyan dando un rapido sguardo alle statue di Budda consapevoli che non li avremmo più riviste perché poste in un posto remoto, inconsapevoli dei tragici avvenimenti futuri, per l’arte certamente, ma anche per gli uomini.

venerdì 20 giugno 2008

Il viaggio a Bamiyan







Le giornate a Kaboul scorrevano pressochè tutte uguali: erano trascorsi ben tre giorni! un manifesto affisso in centro, nei pressi del nostro ristorante di riferimento annunciava un’escursione a Bamiyan . Non sapevamo quali bellezze o torture ci aspettavano e così con l’innato spirito d’avventura ed in mente la scoperta, partimmo. Eravamo una ventina sul cassone di un truck che puntava verso il nord, esposti alla polvere micidiale di una strada non asfaltata d’agosto in Afghanistan; dopo pochi chilometri di questo inferno un paio di viaggiatori italiani rinunciarono, imprecando, all’impresa scegliendo di tornare alle comodità della città. Giungemmo alle sei della sera alla periferia di Bamiyan, 2500 metri di altitudine, dopo circa 230 km misti a polvere e sudore; lungo il percorso greggi infiniti di quelle buffe ma senz’altro resistenti pecore afghane con la gobba dietro il culo, simile per forma e funzione alla gobba dei camelidi; . I pochi negozi erano chiusi; nella valle la notte era calma: era il 28/8/1976.
L’indomani facemmo visita al più grande degli enormi buddha risalenti al 2° e 5° secolo; ma queste datazioni storiche sono acquisizioni di oggi! A quel tempo erano solo enormi e inquietanti! Erano scavati nella roccia , il più piccolo di circa 38 metri; il più grande alto 55 metri, con percorsi interni che portavano alla testa della statue; il piccolo risalente alla dinastia Kushan ed il più grande rappresentante la statua più alta del mondo; ambedue collegabili all’arte del ghandaar,( dal nome dell'antica città che è stata identificata con la moderna Peshawar, in Pakistan) esempi di sincretismo artistico tra la Grecia e l’Oriente, il buddhismo e l’ellenismo. In realtà nei primi secoli d.C. Bamiyan era un centro religioso buddhista molto importante, con una dozzina di monasteri scavati nella roccia; la costruzione delle gigantesche statue superò tutte le orde degli invasori, essendo poste su una via della seta secondaria rispetto alla principale. Il paesaggio sembrava fermare il tempo confermato dai turbanti degli uomini ed i vestiti colorati delle donne non ancora obbligate al burqa ma racchiuse nelle loro vesti dignitose. Non riuscivo a fotografarle, come di solito mi succede, nel rispetto totale della persona umana che mi appare come violentata dall’obiettivo; forse dovrei cambiare atteggiamento e fissare nelle immagini sguardi che mai rivedrò, per l’opportunità contingente, o anche solo per documentare lo scorrere del tempo; chissà quante di quelle persone non ci sono più travolte dalla vita quotidiana e dalle storture delle guerre! ''...Qui la mente è potente, la neve alta e le temperature sono gelide anche d'estate, le vallate sono profonde e le cime pericolose'' scrisse tredici secoli fa il pellegrino cinese Hsiun Tsang descrivendo la valle di Bamiyan. Come tanti altri, anche lui aveva intrapreso un viaggio lungo e pericoloso per venire a visitare la valle dei Buddha giganti. Nessun monumento testimonia meglio dei Buddha di Bamiyan la straordinaria storia dell'Afghanistan pre-islamico che, come ha ricordato l' agenzia dell'Onu per la cultura, l' Unesco, era ''situato a un crocevia della via della seta e che ha un'eredità culturale unica, segnata dalle molteplici influenze della Grecia, della Persia, dell'induismo, del buddhismo e dell'Islam'' Al tramonto sembra di stare in un'altro posto, tanto radicale è il cambiamento della luce e dei colori. Le statue presentevano ogni tanto delle aperture da cui si intravvedevano i turisti che salivano le scale interne su fino alla testa; un biglietto d’ingresso, un misero biglietto d’ingresso, dal costo irrisorio, ma per noi esagerato, ci convinse a non visitare le statue dall’interno.
Con un editto del mullah Mohammed Omar, leader dei talebani, sono state distrutte assieme a tutte le statue e statuette pre-islamiche. L’iconoclastia ha prevalso ed a nulla sono valsi i tentativi di acquisto(!) da parte di americani, francesi , indiani e thainlandesi!. E noi, come tutti non potremo più salire dentro le viscere dei buddha. Adesso, si parla di ricostruirle! E, notizia freschissima, il nostro governo ha stanziato una somma per la costruzione di un ‘autostrada Kaboul-Bamiyan!
Passammo la giornata con due compagni di viaggio bergamaschi, credo, musicisti, uno suonava il sax alto e l’altro il flauto: cercavano sonorità orientali.
Nel poco tempo trascorso a Bamiyan visitammo i dintorni ; c'era un forte diroccato e un boschetto dove, come un diligente maestro, spiegavo delle immagini dell’occidente a dei bambini che, con discrezione e dignità, ci venivano dietro.
Passammo la notte in un localino tappezzato da tappeti dai colori fantastici, sbiaditi dall’età e dai ripetuti lavaggi nel fiume; nello stesso locale, un salone lungo 12 metri x 7 circa, si mangiava e dormiva a prezzi popolari ; il gestore ci invitava inutilmente a ballare una danza popolare. Mangiammo con appetito un pasto di riso e zuppa di vegetali sul tappeto, chi a gambe incrociate chi seduto su un fianco, chi sdraiato come un antico romano; solo i locali riuscivano a stare in quella strana ma certamente efficace posizione accovacciata! Alla fine la maggior parte dei viaggiatori si mise a dormire sullo stesso tappeto. Noi scegliemmo, per qualche afgano in più qualcosa di più appartato, adiacente al locale, arredato con tappeti altrettanto belli. Passammo una notte insonne fatta di pruriti e speranza dell’alba liberatrice. Le pulci avevano colpito ancora!
Conoscemmo Mohamed, un afghano ventenne, che lavorava come cameriere nel posto dove avevamo dormito e che , il giorno seguente, avrebbe viaggiato con noi fino a Bandyamir. Eravamo in pieno Ramadan. Al mattino facemmo una foto ricordo, una delle rare foto fatte e rarissime sopravvissute, in cui noi sembravamo afghani e lui un occidentale. Non era un fervente musulmano osservante: ci confidò infatti che andava a Bandyamir per infrangere, senza punizioni, l’indicazione al digiuno e all’astensione dal fumo.
Anziché tornare a Kaboul, ci imbarcammo in un ulteriore viaggio, destinazione Band-y-amir che veniva dipinta come una sorta di paradiso!

mercoledì 18 giugno 2008

L’ultima cena



Le sonorità create da David Bowie, Doors , Velvet Underground, Frank Zappa, Lou Reed, Jim Morrison, Pink Floyd riempivano l’aria della hall e si mescolava col fumo e il chiacchierio degli ospiti, mentre, a nostra insaputa, si delineava un nuovo stile denominato punk i cui profeti erano, Patti Smith, i Television in America e i Sex Pistols, i Clash e tanti altri in Europa, di cui ne ascoltiamo oggi volentieri ancora le note, magari da sopravvissuti dischi in vinile! Tale fenomeno si sostituiva al fenomeno degli hippy di cui noi pacifisti, idealisti, un po’ trascendenti, ne scimmiottavamo ancora le parvenze, in coda al fenomeno: non eravamo forse sull’hippy trail? Gente la più disparata ci accompagnava in questa ricerca, nella dimensione di un viaggio insieme fisico e mentale; anche anziani (ma forse erano della mia età attuale o anche più giovani) ; non vedevo compagni di viaggio russi, cechi, polacchi, ungheresi, rumeni, albanesi: il 1989 era ancora lontano e, inimmaginabili per me, e forse anche per altri, erano le accelerazioni storiche che si sarebbero verificate in quell’anno. Men che meno, se ciò fosse possibile, vedevo compagni di viaggio africani sull’hippy trail, impegnati, ancora nel secondo millennio, in ben altre rotte! Il gestore, nel tentativo di variare il menu tentava inutilmente di preparare una pizza: per noi andava bene “vegetables soup & rice” e centellinare chai , anche se Fanta e Sprite non mancavano mai, anche nei posti più sperduti e desertici.
Una delle pratiche più frequenti della giornata era rappresentata da un cilum di afgano nero che il gestore dell’hotel ci offriva, non richiesto, in stringhe morbide, per pochi afgani .
Un pomeriggio, cullati da una piacevole brezza, assaporavamo l’acre ed insieme dolce, profumo dell‘ haschisc. “Comprendo la particolarità del momento” dissi solennemente “ma, vedi Max, quando tutto sarà finito, quello ci sarà ancora, lì, lì sotto l’intonaco!” “Cosa dici?” disse Max ridendo a crepapelle. “Si, Cristo ed i dodici apostoli, l’ultima cena, vedi le areole?” Evidentemente non aveva le mie stesse visioni mistiche leonardesche,( o forse più modestamente carlentinesche!) mentre concordava con i mille volti ora tristi ora comici che la luce, aiutata dal vento, forgiava sulla logora tenda che copriva la grande finestra della nostra camera.
Non c’era nulla di tutto ciò: solo i nostri vent’anni, la nostra incoscienza e la convinzione che fumare potesse essere creativo e disinibente, nella logica di un misticismo imperante, di cui noi eravamo la rappresentazione vivente e viaggiante. Quanta gente instupidita dalle troppe canne, e non solo, lungo le strade d’oriente!

mercoledì 11 giugno 2008

Finalmente Kaboul


La città ci accolse con una carrozzella che ci condusse in Hotel; non ricordo il nome (Rainbow?). Passammo lì la prima notte in una mega camerata poco gradevole. Era il 24 agosto del ’76. Dal giorno seguente ci trasferimmo in uno più potabile, posto in una stradina laterale, nei pressi di chicken street. Accanto all’hotel vi era un forno per il pane dove, gli avventori, acquistavano un pane, tipo pizza, che veniva cotto in una grossa giara interrata, nel cui fondo c’era il fuoco; il pane o la pizza che sia, veniva attaccata, non so come, alla parete e tirato fuori, a cottura ultimata, con un gancio; qualcuno lo condiva con verdure varie e poi lo arrotolava.
La giornate scorrevano tranquille ed erano scandite dai ritmi dei pasti; colazione in albergo con the nero e “apple pie” acquistato nella vicina panetteria dove, tra gli scaffali, correvano piccoli e grandi scarafaggi; pranzo al ristorante dell’angolo con kebab in varie preparazioni, dove un grosso, nero, spelacchiato ratto girava lentamente indisturbato tra i tavoli e la cucina; appena fuori, alla porta accanto, vendevano dei pericolosissimi favolosi frullati di fragole o melone e ghiaccio tritato che spegnevano l’arsura pomeridiana; alle cinque the di menta ed alla sera, altro ristorante con musica, riso pilau, vegetali ed una enorme bistecca impanata. L'acqua era presa dalla fontanella e trattata con amuchina e gocce di lyme nella borraccia militare. Era proprio tranquilla Kabul nel 1976; i commercianti del centro contavano mazzette di dollari, l’artigianato era fiorente con produzione di oggetti di rame e simili, lavorati con incisioni floreali di cui conservo ancora un esemplare: un boccale usato solo a scopo decorativo per via dell’ossido che vi si è depositato; il turismo di cui noi eravamo i rappresentanti poveri marciava a gonfie vele. Le attrazioni, le comodità catturavano molti viaggiatori che, a volte storditi dai fumi della Cannabis, scordavano l’obiettivo del viaggio o forse era quello l’obiettivo del viaggio: fumo a basso costo, con disponibilità infinita e senza o quasi i rischi di casa nostra, anche se non era più legale dal 1974 e nella hall dell’hotel campeggiava un cartello che avvertiva dei rischi, ovviamente inascoltati da tutti, gestore compreso!
Era d’estate e poco si intravvedeva della bellissima descrizione degli aquiloni dell’inverno precedente fatta da Khaled Hosseini! Si vedeva qualche burqa, ma tante studentesse non lo portavano e giravano allegre per Kaboul!
Non ebbi modo di vedere il Buzkashi se non nei poster dei negozi del centro o nelle poche cartoline in circolazione. Il Buzkashi è una competizione equestre simile al polo che risale ai tempi di Alessandro Magno; a differenza del polo la palla è sostituita da un montone senza testa; così come ci sfuggì, non ci pensammo nemmeno, una visita al museo di Kaboul.
Lì a Kaboul ebbi la prima sensazione di fuso orario; m’incuriosiva pensare di svegliarmi nello stesso momento che a casa splendevano ancora le stelle o che al calar del sole in Sicilia, era ancora ora di pranzo .
Lo shopping ci prendeva con la sconosciuta e quindi poco redditizia arte del mercanteggiare; riuscimmo ad ordinare e comprare delle bellissime camicie con contrattazioni tendenti all’infinito e troncate dalla improvvisa mia lucidità che individuava il divario tra la domanda e l’offerta in ben tre afghani, 50 lire!
Meno bene andò con il tentativo di acquisto di coloratissimi calzettoni di lana di cammello con suola in pelle, da un ragazzo per strada. Tira e molla e minacce di andare via, con la segreta speranza di essere richiamati appena girato l’angolo, con accordo sulla nostra offerta. Girato l’angolo e non sentendo nulla, tornammo noi sui nostri passi disposti a pagare quanto richiesto: il ragazzo era sparito nel nulla e con lui le bellissime calze di pelo di cammello!
Stessa sorte toccò al tentativo di acquisto delle 500 lire d’argento che volevamo pagare 30 aghani cioè al valore nominale! Si trovavano inoltre lapislazzuli, agate e altre pietre dure, pelli di lupo, pelli di montone lavorate finemente ; comprammo due esemplari di borse; una, la mia, era più piccola e di pelle morbida; quella di Max, più grande , con piccole tasche e di pelle più rigida; caratteristica comune, l’odore pungente che ancora oggi identifico piacevolmente con l’Afghanistan.
Qualcuno trafficava in stupefacenti , rischiando di brutto; altri erano arrivati fin lì in auto: 4 in 500! Uno di loro, romano, si chiamava Giovanni, ci invitò a casa sua quando e se fossimo tornati in Italia. Ricambiammo l’invito; Son cose che si dicono in queste occasioni! Una volta , un anno dopo, passando da Roma , cercai Giovanni al numero che mi aveva dato; mi rispose la sorella, ma, non corriamo, questo lo racconterò dopo!

domenica 8 giugno 2008

L’arrivo in Afghanistan: Herat



La capitale dei timuridi di Tamerlano, ai piedi del Paromiso ci accolse con la sua essenzialità fatta di case di fango, fogne a cielo aperto, che uscivano dalle case come un torrente solidificato dal caldo torrido e si riversano direttamente nelle strade polverose. Niente a che vedere con la mitica città ricca di minareti e bulbi turriti in turchese e lapislazzuli che era prima del 1885, quando gli inglesi consigliarono di distruggere moschee e palazzi per evitare che servissero da rifugio per i nemici russi. Restava solo la Masjid Jami languida visione di quella che fu una bellissima moschea.
L’impatto con la quotidianità fu abbastanza duro. Si giunse la sera con una certa fame. Con un piccolo gruppo di viaggiatori, dopo aver preso un alloggio per la notte, ci recammo presso un locale ristorante. In un’atmosfera buia e fumosa illuminata da poche candele, su un tavolo lercio, senza tovaglia, ci servirono una scodella di riso in cui affondavano per buoni cinque centimetri i pollici del cameriere, incurante di ciò, lasciando, non richieste, le sue impronte digitali; il tutto era condito con una salsa rossa di montone, di cui avevano dimenticato di togliere il vello! Il gusto non era male, la presentazione lasciava a desiderare!
Mangiammo, pensando a voce alta che l’indomani si tornava indietro: in fondo avevamo raggiunto l’ Afghanistan!
Con l’intenzione di prendere domattina il primo pulmann per il ritorno , andammo in albergo.
Parlando con altri viaggiatori, trovarono strano questo nostro atteggiamento di rinuncia dicendoci “solo per questo?” domattina cercheremo un posto più accettabile. Lo trovammo: Il nuovo ristorante era pubblicizzato con piscina; In effetti trovammo una piscina senza acqua, con il fondo ricoperto da una patina verdastra; i tavoli erano coperti da una tovaglia pulita, i pasti serviti in stoviglie apparentemente non inquinate dai pollici dei camerieri, i tovaglioli di stoffa lindi; ci assicuravano anche la potabilità dell’acqua che, a dire del gestore, era del pozzo di proprietà e di conseguenza pulito. Non ci fidammo e trattammo l’acqua con poche gocce di amuchina. Era già tanto e bastò a farci cambiare idea sul proseguire o meno il viaggio.
In passato Herat era una piccola località di provincia relativamente verde caratterizzata da un'atmosfera rilassante, un'oasi di tranquillità in cui cercare rifugio dalle fatiche del viaggio dall'arido deserto.
Nel XV secolo era il centro timuride dell'arte, della poesia, dei dipinti in miniatura e della musica, il luogo in cui le tradizioni della Persia, dell'Afghanistan e dell'Asia centrale si fusero dando vita a una delle massime espressioni culturali di questa parte del mondo.
L'antica cittadella risalente al 1305 è denominata quala. Il bazar coperto del Char Suq ospita negozi e botteghe di ogni tipo. Con una breve camminata dal centro si raggiungono i resti di un'antica madrasa (1417) costruita per volere della regina Gaur Shad. Moglie del sovrano timuride Shah Ruk e nuora di Tamerlano; Gaur Shad era una donna assai capace e riuscì a mantenere intatto l'impero per molti anni. Il suo mausoleo sorge accanto alla madrasa ed è una copia del Gur Emir di Samarcanda.
Ma tutto ciò non sapevamo e non vedemmo. La voglia di avventura ci spingeva con forza oltre, verso l’ignoto. Ripartimmo per Kaboul.

sabato 7 giugno 2008

La frontiera afghana



Il paesaggio desertico si srotolava sotto i nostri occhi, stanchi ma vogliosi di nuovi orizzonti, nuove genti. E poi, ci avvicinavamo all’Afghanistan, il mitico Afghanistan; L'Afghanistan era stato, per tutto il diciannovesimo secolo e nei primi vent'anni del ventesimo, l'irriducibile avversario dell'imperialismo britannico. Dopo la conquista dell'India, l'Inghilterra aveva pensato fosse altrettanto facile impadronirsi di questo aspro Paese stretto tra il Kyber Pass (che porta in Pakistan) e la frontiera con la Russia zarista. Ma gli afghani erano diversi dagli indiani. Non accettavano e non accettano imposizioni dall'esterno, e così come si erano opposti con le armi e con la guerriglia ai tentativi zaristi di sottomissione della loro terra, resero dura la vita agli inglesi, impegnati nelle tre guerre afghane del 1839-42, 1878-80 e 1919 e adesso la rendono dura alle truppe NATO, di cui l’Italia fa parte, fino ad ora con un ruolo militare di basso profilo, ma che, grazie al nuovo governo, si accinge a modificare le regole d’ingaggio in senso più aggressivo! Dal 1933 al 1973 L'Afghanistan è governato dal re Zahir Shah , uomo colto, che nel suo lungo regno , dà il voto alle donne, fonda la prima Università di Kaboul, riesce a mantenere neutrale il suo paese durante la seconda guerra mondiale e dà nel 1964 una nuova e moderna Costituzione all’Afghanistan trasformandola in una moderna democrazia. Ma dopo meno di 10 anni, nel 1973, suo cugino Mohammad Dao Ud, si impadronisce della Presidenza della Repubblica con l’appoggio dell’URSS;re Zahir è costretto a restare in Italia, dove si trovava per cure mediche.

Siamo, durante il nostro viaggio in piena presidenza Dao Ud, anzi ad esser precisi, nei giorni della nostra permanenza a Kaboul, si trovava in Pakistan in visita all’allora primo ministro Benazir Bhutto, di cui conosciamo la tragica sorte. Meno nota, ma altrettanto violenta, fu la sorte di Dao Ud, ucciso anche lui, nel 1978.
Nell’aria che si respirava in Afghanistan nel 1976 non si intravvedevano ancora gli avvenimenti che dal dicembre 1979 al febbraio 1989 portarono l'antico Stato musulmano a diventare il Vietnam della Russia; vi lasciarono la vita non meno di 14 mila soldati russi e almeno mezzo milione furono le vittime afghane. Ma quella guerra, non meno crudele di quella combattuta per vent'anni dagli americani in Vietnam, segnò per sempre il distacco e la irrimediabile contrapposizione tra il mondo islamico e l'impero sovietico, contribuendo forse al crollo di quest'ultimo, con la consacrazione ad eroe del comandante Massud. Gli afghani sono tutti musulmani, ma divisi tra sciiti (20%) e sunniti. Le lingue ufficiali sono il pashto, di origine indoeuropea, e il dari (di tronco persiano). L’etnia principale è quella pashtun, sunniti, che hanno praticamente dominato la vita politica del paese sin dall’inizio della sua indipendenza . Zahir Shah e il mullah Omar sono pashtun. La seconda etnia è tagika di lingua dari, e religione sunnita. Viene poi l’etnia Hazara concentrati nelle montagne, sciiti; seguono poi gli uzbeki, i kirghisi e i turkmeni; infine, etnie minori, sono gli Aimak, i Baluchi, i Braui e i Nuristani.
Lasciata la frontiera persiana, dopo qualche chilometro di polverosa terra di nessuno, ci apparve il miraggio della frontiera afghana: una stalla non di lusso, tutt’altro; tutto era cadente; i muri, i pavimenti, i pochi mobili d’improbabili uffici di frontiera, con altrettanto poco credibili militari, con divise spaiate, fucili che sembravano provenire da una guerra d’altri tempi ed un ufficio cambi che per pochi dollari ci riempì di mazzette di piccole simpatiche banconote d’afghani. Il cambio era di 18,52 lire per 1 afghano. Il clima era molto più rilassato ed anche noi lo eravamo. Sbrigate le formalità di frontiera salimmo su un cadente minibus; il copilota tirò fuori un pezzettino d’afghano nero, che riscosse un successo enorme tra i passeggeri: eravamo davvero in Afghanistan e già pregustavamo i piaceri del viaggio in oriente. Era il 21 agosto 1976.

giovedì 5 giugno 2008

Attraverso la Persia: Tabriz, Teheran e Mashad



Capoluogo dell'Azerbaijan iraniano, Tabriz è situata in una valle chiusa a 1360 metri di altitudine; centro industriale e commerciale, punto di passaggio obbligato tra l'interno dell'Iran ed il Mar Nero, è particolarmente soggetta a terremoti, che più di una volta l'hanno distrutta. Ci colpì la bellezza delle montagne che la circondano. Passammo oltre il grande bazar coperto del XV secolo. Il pulmann giunse dopo circa 700 km a Teheran dove fece una graditissima sosta ! Il cambio era di 12 lire italiane per 1 rial.
Teheran ci accolse con la sua luminosità, il traffico ordinato, grandi viali, il costo della benzina irrisorio e di conseguenza quello dei taxi. Ne prendemmo uno per andare alla banca of Iran (?) dove dovevamo ritirare i traveller’s cheque accreditati da Catania. Era il 19 agosto del ’76.
Dopo rapide informazioni sull’ufficio deputato alla bisogna, lo raggiungemmo attraversando una lunga fila di impiegati , una cinquantina circa, beccati nell’ora del the, in un ampio locale, open space, a tirare fuori dal comodino la tazza personale e un ragazzotto che lo versava passando rapidamente da uno all’altro!
Concludemmo rapidamente l’affare: eravamo giunti a metà percorso, incassato i traveller’s e stavamo rispettando la tabella di marcia. Potevamo proseguire il viaggio con in tasca i nostri preziosi biglietti : li sistemammo nell’apposita, fidata, sacca di pelle marrone, l’appendemmo al collo, la nascondemmo sotto la maglietta e, sempre più sicuri, ci inoltrammo nella città in attesa di ripartire.
Incontrammo diversi ragazzi italiani che facevano lo stesso percorso. Due in particolare mi colpirono. Attaccata al telefono lei parlava con la mamma: “..la Grecia è magnifica, c’è un mare!” In realtà ci trovavamo a Teheran e il loro viaggio prevedeva come meta l’India. Quanti imbrogli, a fin di bene! Noi non avevamo neanche il pensiero del telefono: eravamo in viaggio, anche mentale! Il 2000 era ancora lontano: l’era dei telefonini, dei satellitari, della rete non l’immaginavamo nemmeno!
Giunti a Mashad, sede del santuario di Alì nel Korasan iraniano, città sacra perchè luogo di sepoltura dell'ottavo Imam dello Sciismo duodecimano Alī al-Ridā, ci fermammo per passare la notte. Nell’attesa, e giusto per fare due passi e vedere la città, accettammo l’invito di due ragazzini che si offrirono come ciceroni. Ci condussero in un negozio del fratello lungo una via polverosa dove, dopo l’immancabile the, ci mostrarono una quantità inverosimile di tappeti, piccoli, medi e grandi, sottolineando le caratteristiche salienti. “Questi sono annodati a mano su telaio verticale con 640.000 nodi al metro quadrato con filo in lana ricco di lanolina e seta naturale, trama in cotone e ordito in seta naturale” i colori andavano dall’oro all’avorio, dal pistacchio alla senape, dal rosso prugna al lilla, dal salmone al marrone al blu, in disegni floreali difficilmente descrivibili: veramente belli! Ma diverse motivazioni ci impedivano di acquistarli: primo, avevamo pochi soldi; secondo, eravamo al viaggio d’andata e veniva leggermente scomodo viaggiare con un tappeto , anche se persiano, di 2 metri x 1,5, arrotolato nelle tasche dello zaino militare, esercito o marina, in giro per deserti, montagne e quanto ancora non sapevamo. Con l’impegno(?) di ripassare al ritorno ritornammo in albergo.