mercoledì 30 luglio 2008




Rientro nei ranghi

Ci portammo dietro il sudore, la polvere e ogni bendidio da Kaboul! Erano passati 10 giorni e nemmeno un’opportunità di una doccia, un bagno! Le motivazioni erano contingenti ma tant’è…! La zia di Max ci accolse calorosamente e ci offrì un abbondante pasto ma prima chiedemmo un bagno; io superai brillantemente la prova; Max, vuoi perché successivo, vuoi perché più ricco di bendidio, intasò la vasca! Ci informarono delle pene dei nostri genitori che alleviammo con una tanto sospirata telefonata. Un treno ci riportò a Catania: il viaggio era finito e cominciava il tran tran!
Duro , ma non troppo, fu il rientro nei ranghi, quasi osannati come eroi dai nostri amici e conoscenti: “hei, guarda quelli lì, sono stati in Afghanistan!”
Il fascino dell’oriente , del viaggio, inteso come viaggio della mente, ci aveva condotto lungo la rotta hippy, vivendo esperienze di vita cruda senza raggiungere i luoghi del misticismo e della meditazione e senza perdere di vista la vita reale.
A proposito, c’eravamo scordati del nostro amico Giovanni!
L’anno successivo, passando da Roma, mi ricordai dell’invito e mi sembrava bello incontrare il mio amico; tirai fuori il numero di telefono e chiamai. Mi rispose, un po’ meravigliata la madre che, evidentemente emozionata, chiamò la sorella; mi disse che Giovanni non era in casa; non mentiva; ma subito dopo mi chiese chi fossi , dove e quando avevo incontrato Giovanni; Non era ancora tornato e chissà se poi l’ha fatto in seguito! La confortai dicendo che stava in buona salute, ma era passato più di un anno, salutai e riattaccai! Vivemmo i tragici fatti del ’77, anche se marginalmente, e devo ringraziare mio padre che mi vietò per la prima volta, a ragione, di partecipare alla manifestazione di Roma in cui venne uccisa Giorgiana Masi.
Completai gli studi laureandomi in Medicina a pieni voti presso l’Università di Catania nel 1980; Max in Ingegneria credo anche a pieni voti (ho già detto che era un genietto!)
Io emigrai in Piemonte e lui prima in Liguria, un breve periodo in England e poi Milano.
Vuoi la conoscenza di luoghi del mondo diversi dal nostro, vuoi la mia formazione cattolica e la voglia di un impegno politico diverso dal solito, mi portarono a esplorare e condividere impegni di cooperazione internazionale in campo sanitario, in Asia, Africa e SudAmerica da un punto di vista prettamente laico.
Nel corso degli anni ho avuto modo di completare i luoghi dell’hippy trail, raggiungendo Katmandu, stavolta in aereo e con ben altre finalità!
Qualche anno dopo, nel 1979, proseguimmo la condivisione del viaggio, stavolta esitato in un lavoro in Germania; esitato perché non programmato.
Eravamo andati a trovare il nostro amico Salvo che, dopo gli studi liceali era partito, emigrato, in Germania e lavorava in una delle tre birrerie di Stuttgart, la Hofbrau; le altre erano la Swabenbrau e la Dinkelaker… ma questa è un’altra storia!


Ringrazio chi è giunto alla fine di questo blog anomalo, chi ha condiviso questi ricordi, di scarsa importanza se vuoi, ma intimamente miei!

lunedì 21 luglio 2008

Ritorno in Grecia



Partimmo per Atene con un biglietto BIGE il 22/9/1976; Il treno si fermava in ogni stazione, anche senza un apparente abitato. Al confine con la Grecia, dopo un’attesa che si protraeva oltre il lecito, ci accorgemmo che il nostro vagone, e solo il nostro, era su un binario morto! Si era un po’ incazzati quando giunse la notizia che il nostro treno era arrivato in ritardo e che, previa integrazione del prezzo del biglietto, avremmo proseguito con un altro superveloce. Seguirono proteste; qualcuno integrò, la maggioranza, noi compresi, no! L’addetto alla biglietteria, incazzato a sua volta, chiuse violentemente lo sportello mandandoci probabilmente a quel paese, ricambiato del resto! Nell’attesa cercammo di fare un giro nei paraggi, subito bloccati dai militari per la tensione che c’era tra Grecia e Turchia.
La stessa tensione che si creò con il bigliettaio greco che, sul treno,pretendeva l‘integrazione del biglietto. Escogitammo molti sistemi per eludere il pagamento; la prima scusa era che non avevamo i soldi: in effetti ne avevamo pochi e non volevamo restare a secco! Il controllore sembrava avesse creduto alle nostre affermazioni finchè ci trovò al vagone ristorante che sgranocchiavamo chissà cosa! Tornò alla carica e qui cominciammo a ciurlare nel manico facendo i finti tonti, dicendo di non capire e che parlavamo inglese! Andò via e credevamo di averla fatta franca; tornò con un tizio che parlava inglese e noi a dire che parlavamo francese! Andò via ancora una volta; Già s’intravvedeva Atene e cantavamo vittoria quando tornò con un poliziotto e ci ritirò i passaporti invitandoci a ritirarli in stazione dopo aver saldato il conto! Dopo una breve consultazione in cui valutammo i pro e i contro, capitolammo e ritirammo i passaporti!
Ad Atene ci imbarcammo su un taxi collettivo, un Mercedes, che ci assicurò l’arrivo a Patrasso per le 19; almeno così pensavamo noi! In realtà procedeva con un andatura turistica, 60-70 km/h fino a Corinto, erano le 17 e mancavano circa 140 km! Non saremmo arrivati in tempo! Chiesi ulteriormente come pensava di arrivare in tempo; stavolta capì che noi si intendeva le 7 di questa sera mentre lui intendeva le 7 dell’indomani! Improvvisamente affondò il piede sull’acceleratore e l'auto decollò. Arrivammo al porto in orario e, dopo una corsa di circa 400 metri, con i nostri pesanti zaini, raggiungemmo la nave, mostrando i biglietti; con nostro grande disappunto ci rinviarono alla partenza perché avremmo dovuto far apporre un timbro in biglietteria. Altri 400 metri indietro, timbro e poi altri 400 metri e la grande bocca del traghetto si chiuse dietro le nostre spalle! Ce l’avevamo fatta ancora una volta! Era il 24/9/1976.

giovedì 10 luglio 2008

Ritorno in Turchia: Istanbul (17/9/1976)



Improvviso un lampo illuminò il cielo accanto a Santa Sofia, seguito da un fragoroso tuono che interruppe i nostri discorsi; la pioggia sbatteva sui vetri sospinta dal vento. Mi accostai alla finestra per dare uno sguardo alla strada: “ minchia, sotto un albero siamo!”- dissi , non celando nei termini e nella costruzione le mie origini sicule, suscitando ilarità in Max e nei due grossetani. In effetti, sotto in strada, un grosso albero stava all’ingresso dell’Hotel e raggiungeva con le sue fronde i vetri della nostra finestra. L’acqua riempiva già la strada e scorreva da Sultanhamet verso la stazione ferroviaria provocando un fuggi fuggi generale dei numerosi venditori ambulanti coi loro carrettini pieni di gustosi cibi da strada. L’hotel era lercio; di notte degli animaletti rigonfi di sangue risalivano le pareti sopra il mio letto, mentre la mia pelle, e solo la mia, era ricoperta di lesioni papulose intensamente pruriginose. Anche noi del resto, non eravamo più lindi dell’hotel; il nostro ultimo bagno risaliva a Kaboul, 5000 Km fa come spazio e 7 giorni fa come tempo; il padrone ci promise l’acqua calda pregandoci di aspettare l’avvio della caldaia. Aspettammo 3 giorni senza risultato ed il treno per Atene era già in partenza rimandando il sospirato bagno a tempi e luoghi più comodi.
I giorni passarono senza sforzo con la velocità di tutti i giorni in ogni posto della terra. L’atteggiamento era più spavaldo rispetto a 2 mesi fa; avevamo 15000 Km nelle gambe, esperienze non sempre idilliache e qualche volta avevamo dovuto toglierci d’impiccio fidandoci delle nostre deboli forze e del nostro naturale istinto. Trattai con tranquillità e spavalderia delle banconote al mercato nero, chiedendo più di quello che il mercato nero potesse offrire. Scambiai il mio sacco a pelo di piume, a mummia, hand made, con quello sintetico della ragazza grossetana, certamente di minor valore commerciale ma senz’altro più leggero. La copertina di una rivista ci informava che il padre della rivoluzione cinese, Mao; era morto già da circa 10 gg. e un Boeing 727 si schiantava contro una montagna della Turchia facendo 155 vittime delle quali 85 italiani; ma noi non lo sapevamo e nemmeno mio padre sapeva che noi non eravamo tra quelli; Si metterà il cuore in pace 10 gg dopo, al nostro rientro, ignari di tante cose!
Tornai in quel lercio hotel venti anni dopo con mia moglie; non era più lo stesso essendo stato completamente ristrutturato; non più enormi stanzoni con pareti grigio marrone e fioca luce, locale per bagno con enorme stufa scalda acqua, ma stanze di fresca bianca pittura con bagno , sempre sotto il grande albero di venti anni prima.
Fui contento di ritrovarlo così cambiato; il proprietario ci accolse gentilmente trovandoci un parcheggio in una strada adiacente vicino ad un altro piccolo albergo gestito dal fratello. Furono tre giorni da favola con una grande voglia di scoperta da parte di Donatella, vera trascinatrice all’estero quanto conservatrice e abitudinaria in patria.

venerdì 4 luglio 2008

Kaboul-Istanbul non stop 3^



Il viaggio scorreva lento ma continuo tra le strade polverose con soste per i pasti, le angurie dolcissime e dissetanti, i bisogni fisiologici, il fumo, il riposo notturno attorcigliati tra i sedili; non sopportavo molto questa posizione per cui, appena si faceva sera, in 5-6 persone ci sistemavamo sdraiati nel corridoio del bus, riuscendo a dormire profondamente; Durante la notte, io non mi accorsi di nulla perché dormivo profondamente, Max ed altri entrarono in una moschea dove un guardiano, con un robusto bastone, vigilava affinché gli infedeli non profanassero la sacralità del luogo; Max riuscì ad eludere la sorveglianza non destando, per l’aspetto che aveva acquisito, alcun dubbio sulla sua origine; Una bionda viaggiatrice pomiciò tutta la notte con il giovane bigliettaio turco, litigando irrimediabilmente con il suo compagno; Un’altra coppia venne abbandonata durante una sosta e ripresa alla fermata successiva, dopo qualche centinaio di chilometri d’inseguimento con una macchina di fortuna.
Alla fermata di Teheran, l’aria che si respirava con la gente non era tranquilla, per cui, dopo breve consultazione , ci trovammo d’accordo di proseguire la seconda parte del viaggio fino a Istanbul; pagammo i 25 dollari necessari per la tratta e proseguimmo la nostra folle corsa.
In prossimità di Istanbul l’intestino ricominciò a reclamare una non rinviabile evacuazione. Era sera e, dopo una rapida contrattazione con l’autista, il bus accostò in un posto che a me sembrava un parco; cercai un riparo dietro un cespuglio ben rasato e svuotai il contenuto retto-colico senza ritegno; con mia grande sorpresa, tutti i viaggiatori scesero dal pulmann, poi anche i loro bagagli…: era Sultanhamet, stazione di arrivo, di fronte al Pudding shop! Dopo un iniziale, ma neanche tanto, disagio, zaino in spalla, ci avviammo al nostro hotel.

Kaboul-Istanbul non stop 2^



Alla frontiera dalla parte afgana numerose scritte artigianali con fumetti invitavano ad abbandonare tutto l’hascish avanzato, ventilando il rischio di buia galera dall’altra parte; L’appello rimase inascoltato, specie per due compagni di viaggio grossetani che non volevano rinunciare alle loro scorte!
L’attraversamento del confine con l’Iran fu un incubo! era il 15 settembre ’76. La sosta durò diverse ore; ci fecero scendere dal bus e lo ispezionarono per bene, bucando i sedili , smontando parti meccaniche e quant’altro; i viaggiatori furono incanalati in lunghe file con i rispettivi bagagli, rigorosamente divisi per sesso; attraversammo il museo della frontiera, dove erano in bella mostra tutti i trucchi messi in atto dagli spacciatori per fregare i controlli; ovviamente erano stati scoperti e la mostra era un tentativo di dissuasione per i viandanti.
La lunga fila stazionava davanti ad un poliziotto che, a volte, ispezionava i bagagli, non prima di aver apprezzato la frequenza cardiaca; una tachicardia era espressione di paura e quindi suscettibile di controllo; il nostro amico di Grosseto e gentile compagna era dietro di me ed io, sapendo del pezzo di hashish occultato rispettivamente nel retto e in vagina, tremavo per loro; fu la loro salvezza! Il funzionario colse in me una paura fottuta e mi mise da parte per una ispezione accurata, ovviamente infruttuosa: non avrei mai rischiato la galera per prolungare un piacere effimero. La ragazza, serena come una pasqua, trasbordò il suo pezzo nascosto in vagina senza subire ispezioni corporali previste da funzionarie donne.
Ripartimmo dopo molte ore e senza che i doganieri avessero trovato nulla con sospiro di sollievo mio e di tutta la compagnia.
Utilizzammo il fumo per tutto il restante viaggio con un gusto particolare che derivava dalla sua sempre progressiva rarità e illegalità.

Il ritorno: Kaboul-Istanbul nonstop 1^



Rientrammo a Kaboul il 10 settembre ’76, ricalcando, a ritroso, gli stessi passi dell’andata: Lahore, Rawalpindi, Peshawar, Kyber pass, Kaboul. Mao era morto il giorno prima ma noi ne avemmo notizia solo a Istanbul, oltre una settimana!
Kaboul ci sembrava molto familiare. Cambiammo ancora i pochi travellers rimasti in una Bank of Afghanistan che rivaleggiava in eleganza con gli uffici dell’Iran-Afghanistan border: un’altra stalla, con l’ufficio cambi nel pagliaio, raggiungibile con una ripida scala in legno! Tra una cosa e l’altra erano già passati due mesi ed era giunta l’ora di tornare, almeno per me! Max non ne aveva tanta voglia. Trovammo due posti su un comodo bus GT che sarebbe partito tra due giorni da Kaboul con destinazione Istanbul con fermata intermedia a Teheran. Optammo per la tappa intermedia sia per dividere i 5000 km del viaggio sia per vedere con più calma Teheran.
Il giorno della partenza ci presentammo alla stazione dei bus, dopo aver disdetto l’hotel e saldato i ridicoli conti con gli zaini ricolmi, una borsa di pelle nuova, morbida la mia e più rigida quella di max con un profumo o tanfo, fate voi, che mi ricorderà per sempre Kaboul! La sorpresa ci fu comunicata allo sportello: la partenza era rimandata di due giorni. Il rinvio mi disturbava un po’ essendo già nella dimensione del ritorno; non così per Max che ritornò volentieri in hotel a riprendere ancora per qualche giorno le comode abitudini della vita di Kaboul del 1976.
Ne approfittammo per fare le ultime compere, i souvenir… Acquistai due gonne a portafoglio in cotone russo; ne indossai una per tutto il resto dei giorni che passammo a Kaboul e una era per Irina che la terrà per decenni (ce l’hai ancora?) indossata sempre con piacere. Se non ricordo male Max acquistò uno sgabello, sì uno sgabello di rami intrecciati, un narghilè e non so cos’altro: tutto nello zaino!
Il giorno della partenza arrivò comunque con la velocità tipica di quando fai delle cose piacevoli: subito! In realtà il tempo non prende ordini da nessuno e tira dritto per la sua inesorabile strada: solo la nostra percezione sposta, di poco, la realtà.
Il bus era di quelli comodi. Ci assegnarono un posto nell’ultima fila, quello di solito disputato dagli studenti in gita; Max non apprezzò la sistemazione prevedendo l’impossibilità di abbassare lo schienale per il riposo notturno; prese lo zaino e scese dal bus proponendo di prendere il successivo! Il successivo!? Chissà quando sarebbe partito! Le mie insistenze e soprattutto l’assegnazione di un posto più comodo convinse Max a risalire e ad intraprendere il viaggio di ritorno che suonava male alle sue orecchie.

giovedì 3 luglio 2008

Lahore 2^ parte


Era un grande albergo a più piani con le camere che davano su un corridoio che si apriva su un cortile. Il colore dominante era grigio-oliva.
Con un sospiro di sollievo posai il mio zaino sul letto e cominciai a tirar fuori il contenuto; la macchina fotografica, Exacta RTL 1000, era lì al suo posto; la sollevai e, sorpresa, il peso si era ridotto praticamente a quello del solo contenitore: praticamente me l’avevano fottuta! Porca miseria! o giù di lì!
Le prospettive che si paravano davanti erano tre: far finta di nulla e proseguire il nostro giro, denunciare il furto e comunque proseguire il nostro giro, tornare sul luogo del furto e cercare di recuperare il maltolto! Dopo rapida consultazione optammo per la soluzione più incasinante e più pericolosa: tornare al lercio hotel a rivendicare la macchina fotografica avendo individuato nell’assenza della mattinata l’unico momento in cui il furto si sarebbe potuto compiere.
Ci armammo di coraggio e tornammo sui nostri passi. Grande fu la sorpresa del tipo nel vederci arrivare e, dissimulando la sorpresa, ci accolse con un largo ma sforzato sorriso chiedendoci il motivo della visita. Esponemmo le nostre lamentele; ci fu risposto indicandoci un cartello in cui si diceva che la direzione non rispondeva di eventuali furti nelle camere. Dopo un batti e ribatti in cui il mio povero inglese si mischiava sempre più con il mio ricco siciliano, il tipo cominciò ad incazzarsi e ad essere sempre più minaccioso; Per contro veniva fuori un mio sconosciuto spirito battagliero che mi portava a minacciare di andare via da quel posto e denunciare l’accaduto alla polizia. L’ingresso credo occasionale di un poliziotto, peraltro sbronzo, o comunque fatto, giocò un ruolo fondamentale a mio parere nel far cambiare la partita; ad un iniziale rifiuto totale si giunse alla ventilata ipotesi di ricompensa per il ladro; Questo mi diede la conferma che c’era una associazione a delinquere e temerariamente alzai la posta minacciando di andare via; era mia intenzione di andare via davvero, definitivamente senza nulla pretendere e ci avviammo verso le scale; “OK, OK, disse il tipo, adesso vedo se riesco a recuperare la fotocamera, aspettate qua!” Temendo soluzioni violente al riparo di occhi indiscreti, optammo per attendere in strada la soluzione della vertenza. Il sole cominciava a calare e la penombra si insinuava nel quartiere che non aveva una illuminazione pubblica; questa situazione ci faceva prevedere ancora soluzioni violente, complice il buio. Dopo un pò decidemmo di andare, subito bloccati dalla voce del tipo che riferiva come imminente l’arrivo della macchina fotografica; Il buio era quasi prossimo e minacciando ulteriormente di andare via, ci avviammo verso il centro. Il tipo giunse con in mano la camera e ce la consegnò con molte scuse indicando in un cameriere il ladro. Per completare il successo e il comportamento da mafioso chiesi, con fare minaccioso, se fosse stata aperta. All’assicurazione che la macchina non era sta aperta, stringemmo la mano al tipo e tornammo rapidamente alle nostre occupazioni. Il petto si riempiva d’orgoglio e probabilmente al buon esito dell’operazione aveva contribuito il nostro essere siciliani e l’alone di mafia che circonda questo termine.

Lahore I^ parte


E perché non Lahore! Lahore al confine con l’India. La solita polverosa stazione dei bus ci fece trovare un tipo che, con insistenza, ci proponeva una delizia di comodità alberghiere nell’hotel da lui sponsorizzato. Dopo un minimo di resistenza e in mancanza di alternative ci dicemmo: “Why not”? E seguimmo la nostra guida improvvisata che ci portò all’hotel situato nella periferia della città.
Le due rampe di scale ci portarono alla hall dove un giovane muscoloso pakistano con fare accattivante ci guidò in una delle poche camere che si aprivano direttamente nella hall, mostrando con orgoglio un grosso ventilatore posto sul soffitto che avrebbe dovuto alleviare l’afa opprimente che ci perseguitava dall’ingresso nel Paese. Il risultato dell’azione del ventilatore era sì quello di muovere l’aria ma, allo stesso tempo, sollevava l’odore di lercio delle lenzuola. Il tipo si prodigava a renderci il soggiorno piacevole offrendoci da fumare e proponendoci dei massaggi rilassanti. Rifiutammo gentilmente programmando per l’indomani una fuga da quel posto facendo trapelare l’intenzione di tornare a Kaboul; in realtà la nostra intenzione era quella di cambiare sistemazione in un posto meno equivoco e più pulito. La cosa non fu di facile attuazione perché le nostre finanze erano basate su un unico ingombrante centone di dollari americani che non volevamo cambiare prima in rupie pachistane per poi ricambiare in afgani e poi in rials iraniani e poi in lire turche e in dracme greche e infine lire italiane! Ci venne la brillante idea di chiedere aiuto al consolato italiano, chiedendo un semplice cambio in tagli più piccoli. Dopo lunga attesa ottenemmo un netto rifiuto e così sconsolati (appunto!) tornammo nel lercio hotel a tentare una mediazione per saldare il conto e avere il resto in dollari. Il tipo muscoloso ci fece pagare il corrispettivo di 20 dollari e con nostra felicità ci rifilò 80 profumati dollari in banconote da 20. Dopo i convenevoli, eravamo diventati degli amiconi; ci salutammo con la promessa di rivederci un giorno e con l’augurio di un buon viaggio per Kaboul; e sì Kaboul; avevamo detto Kaboul. Il tipo in un eccesso di cortesia insistette per farci accompagnare alla stazione dei bus per Kaboul da un ragazzo. Le nostre intenzioni erano quelle di restare in città per cui con uno stratagemma lasciammo credere che avremmo acquistato dei viveri per il viaggio ed avremmo preso il nostro bus. Quando fummo certi che il ragazzo si era allontanato, andammo diritti verso il nuovo albergo che avevamo adocchiato in mattinata.

Peshawar



Giungemmo finalmente a Peshawar, città di confine, abitata prevalentemente da gente di etnia pasthun. Alloggiammo in un hotel, ovviamente economico, buio. Stanchi del viaggio, chiedemmo del the e qualcosa da mangiare; Ci portarono delle brioches e del the al latte; m’incazzai come non mi succede praticamente mai, inveendo contro il cameriere: “Avevo chiesto del the, non del the al latte!” e lui , timidamente” assaggia, assaggia”. Effettivamente era buonissimo ! chiesi scusa per la mia cafonaggine giustificata dalla stanchezza e ci buttammo sul cibo. La latrina era alla turca con un salutare rubinetto basso che ci aiutava nelle abluzioni post-bisogni corporali; bisogni corporali! La usai frequentemente in quei giorni con numerose scariche dissenteriche (cioè con sangue!). ero demoralizzato: mi vedevo a 8000 km da casa e non potevo certo fare ritorno in un battibaleno; ci venne l’idea di cercare un volo per il ritorno; ci buttammo in città alla ricerca di una agenzia di viaggi; fra l’altro era piacevole entrare nei locali condizionati per un attimo di ristoro dal caldo umido asfissiante di Peshawar; ne visitammo due o tre ma il prezzo era ben lontano da quello che avevamo visto, prima di partire in una pubblicità della Pakistan airline: con i soldi rimasti in due non si riusciva a fare neanche un biglietto!
Decidemmo di girovagare per la città. Alla sera con una carrozzella con ripostiglio segreto sul tetto ripieno di ogni bendidio (si fa per dire!) andammo in un locale (rainbow?) dove mangiammo bene e incontrammo tipi di ogni specie. Un frutto mi colpì in particolare: grosso come una grossa mela, di cui riproduceva la forma, buccia liscia, gialla, polpa come una pera, granulosa, sapore di …fragola! Amruth era il suo nome; ho portato con me i semi che ho messo inutilente nel mio giardino!
La vicinanza di Darra, città del commercio clandestino di ogni tipo di arma, droghe varie, con consegna a domicilio in ogni angolo del mondo, si faceva sentire. Sarebbe stato interessante farci una capatina ma non sapevamo da dove iniziare e poi anche un po’ di timore ha fatto il resto!
Il cocchiere ci aspettò tutta la sera e lo ritrovammo all’uscita: evidentemente eravamo degli ottimi clienti!

martedì 1 luglio 2008

Il passo Kyber 4/9/1976



Tornammo a Kaboul allo stesso hotel. La voglia di andare verso oriente ci spinse all’ambasciata indiana per ottenere il visto d’ingresso; Ci svegliammo di buon mattino e, con pazienza, ci mettemmo in coda. La fila era lunghissima; dopo poco rinunciammo al passaggio in India optando per una permanenza in Afghanistan, con una puntatina in Pakistan.
La sonda Viking atterrava su Marte il 3 sttembre del '76 e noi ne eravamo all’oscuro!
La ricerca di un mezzo di trasporto per il Pakistan ci portò alla scelta dettata dal risparmio; scegliemmo un bus locale (sedili senza imbottitura, rigidi, con trasporto promiscuo di uomini, animali e cose) che, per una cifra circa la metà di altre compagnie, ci prometteva di portarci a Peshawar in tempi ragionevoli. La strada scorreva lentamente con compagni di viaggio, afgani e pakistani, segnati dalla fatica avvolti nelle loro ampie ma funzionali vesti . I posti di blocco erano sempre più frequenti e i doganieri si accanivano particolarmente con i locali che spesso venivano fatti scendere dal bus a bastonate, con le loro povere merci, in modo definitivo e verosimile sequestro del misero sacchetto di granaglie (credo fossero tali, a giudicare dalla forma che prendeva il sacco!)
Infine giunse il confine e con nostra grande, prima sorpresa e poi stizza, scoprimmo che il bus era giunto al capolinea ed il biglietto pagato si riferiva a quella tratta percorsa e che per giungere a Peshawar era necessario attenderne un altro e pagare il relativo biglietto in rupie pachistane: Il necessario cambio era 85,07 lire per una rupia. Tirammo fuori dai nostri rifugi segreti i dollari poco più che necessari alla bisogna e li cambiammo in rupie. Per fortuna il bus non si fece attendere a lungo e regolando il prezzo del biglietto puntammo verso il Pakistan.
Il passo Kyber fu uno sballo, una meraviglia continua mista a paura; i fortini abbandonati si presentavano lungo la strada memori di antiche battaglie; famosi condottieri quali Alessandro Magno, Tamerlano erano passati di là e gli inglesi, tentarono inutilmente di occupare il territorio afgano attraverso il Kyber. Il bus correva rigidamente sul bordo sinistro della strada dandoci costantemente l’impressione di precipitare lunghi i profondi dirupi. Ogni tanto, tribali camminavano lungo i bordi della strada e il divieto di fotografare le donne si presentava frequentemente.
La pianura e il verde del Pakistan si mostrarono al nostro sguardo in maniera abbagliante per l’intensità dei colori, l’abbondanza d’acqua, le pozze ripiene di bufali e la morfologia degli abitanti; notai la presenza di numerosi longilinei con la testa relativamente piccola, poliomielitici su carrettini artigianali che rotolavano su cuscinetti a sfera come quelli che vedevo da bambino in quel di Randazzo, costruiti dai ragazzi più intraprendenti che, comunque, che io sappia, non sono poi diventati ingegneri automobilistici! Alla prima stazione di sosta del bus ebbi una piacevole sorpresa: alla Sprite, bevanda onnipresente, si aggiunse un piacevolissimo succo di mango di produzione nazionale che divenne la mia bibita ufficiale e mi accompagnò per tutto il viaggio in Pakistan.